Repubblica democratica Congo
Nella Repubblica democratica del Congo ci sono stati in un anno oltre 2.600 casi di Ebola, tra cui 1.800 morti nelle province di Ituri e Nord Kivu, dove da 25 anni è in corso un conflitto a bassa intensità. Tra le vittime, 700 bambini, il 57% sotto i 5 anni di età. “L’epidemia è fuori controllo. I casi conosciuti stanno aumentando, ce ne sono stati più di 1.000 negli ultimi tre mesi”: a parlare al Sir è Claudia Lodesani, presidente di Medici senza frontiere Italia. Il Rwanda ha chiuso le frontiere e cresce la preoccupazione che si diffonda anche in Uganda e Sud Sudan
E’ la peggiore epidemia nella Repubblica democratica del Congo e la seconda nella storia del virus Ebola. Ad un anno esatto di distanza dal primo caso accertato, il 1° agosto 2018, Ebola continua a far paura e i contagi non accennano a diminuire. L’Organizzazione mondiale della sanità conferma oltre 2.600 casi, tra cui 1.800 morti nelle province di Ituri e Nord Kivu. Tra le vittime ci sono 700 bambini, il 57% sotto i 5 anni di età. “L’epidemia è fuori controllo. I casi conosciuti stanno aumentando, ce ne sono stati più di 1.000 negli ultimi tre mesi”, dice al Sir Claudia Lodesani, presidente di Medici senza frontiere Italia, medico infettivologo che ha lavorato nella risposta all’epidemia del 2014 e 2015 ed è stata nella Repubblica democratica del Congo lo scorso anno. Due settimane fa l’Oms l’ha dichiarata emergenza sanitaria pubblica di interesse nazionale, perché in un anno non si è riusciti a contenerla. Il Rwanda ha annunciato la decisione di chiudere le frontiere e anche in Sud Sudan e Uganda si è preoccupati per il rischio che l’epidemia si diffonda. Secondo i dati Onu più di 770 persone sono sopravvissute, oltre 170.000 vaccinate, 1.300 trattate con terapie sperimentali in 14 centri, 20.000 persone che hanno avuto contatti sono state visitate ogni giorno per assicurarsi che non si ammalassero. Sono stati realizzati screening su 77 milioni di viaggiatori nazionali ed internazionali. Medici senza frontiere è presente nella R.D. Congo da tempo e gestisce attività legate all’epidemia a Kayna e Lubéru in Nord Kivu, a Bwanasura e Bunia, nella provincia di Ituri e a Goma. E’ stata però costretta a sospendere gli interventi nei centri di trattamento di Butembo e Katwa a causa di violenti attacchi contro le strutture.
Quali sono gli aspetti più preoccupanti di questa epidemia nel cuore dell’Africa?
E’ la prima epidemia di Ebola in un contesto di guerra, nel nord Kivu, dove da 25 anni c’è un conflitto a bassa intensità. Questo rende più difficili i movimenti dei team e gli interventi, soprattutto la vaccinazione, perché è complicato raggiungere la popolazione. Tra gli altri elementi di inquietudine c’è un primo caso in Uganda, anche se è stato subito isolato.
Il Nord Kivu è una zona di commercio e le persone si muovono verso Sud Sudan, Uganda e Rwanda, per cui il rischio che sconfini in questi Paesi esiste ed è reale.
Altro dato inquietante è un secondo contagio a Goma, sempre nella R.D. Congo. Sono casi scollegati tra di loro dal punto di vista della catena di trasmissione, per cui è ancora più preoccupante. Vuol dire che il virus è arrivato in una grande città, con un rischio di contagio maggiore perché la popolazione è più numerosa.
Cosa racconta il personale medico sul campo?
L’aspetto interessante è che
rispetto all’epidemia del 2014 e 2015 ci sono vaccini e farmaci che allora non avevamo.
Dal punto di vista tecnico la situazione è migliorata, tanto è vero che la mortalità nei centri è più bassa. Però rimane elevata perché la gente viene tardi nei centri o non viene proprio. Un terzo delle diagnosi sono fatte post mortem. I team ci raccontano la diffidenza della comunità. Sicuramente è necessario un cambiamento di prospettiva:
bisogna che le comunità siano implicate nelle strategie di prevenzione perché altrimenti credono a dicerie e falsi miti.
Ad esempio dicono che il virus è portato dai bianchi, che il vaccino rende sterili. Allora non vengono a portare i pazienti o a farsi vaccinare. Se non riusciamo ad approcciare le popolazioni non riusciamo nemmeno a guadagnarne la fiducia. Queste notizie false vengono smantellate solo parlando con la gente. Altro elemento importante è che il Nord Kivu è una delle regioni più povere del Congo, dove il sistema sanitario è già sofferente. L’Ebola non fa che aggiungere un nuovo problema. Infatti il 5% dei pazienti fa parte di staff ospedalieri. Da qualche mese abbiamo una strategia di supporto dei centri di salute indipendentemente dall’Ebola, perché le persone possano andare a curare anche le altre malattie.
Avete dovuto chiudere due centri e c’è un conflitto in corso. Anche la sicurezza degli operatori è a rischio?
Si, ci sono stati attacchi ai nostri centri e a quelli dell’Oms e di altre organizzazioni da parte della popolazione, che non vuole i centri di salute. Uno di questi è stato incendiato. Non credono di poter essere aiutati perché il numero delle persone che muoiono nei centri è elevato. Faticano ad accettare il rischio che una persona entri nel centro e poi non ne esca più, anche se ci sono metodologie che permettono ai parenti di vedere il paziente, ad esempio con vetri di plexigas. Però non sempre è sufficiente.
Inoltre i familiari non possono seppellire i propri morti perché i corpi dei pazienti sono infetti….
Esatto. Noi abbiamo una procedura per cui quando qualcuno muore dentro al centro si fa una foto, che viene data alla famiglia. Si fa vedere la persona morta prima di chiuderla, c’è un rituale per coinvolgere i familiari. Ma sicuramente il momento del decesso è il più contagioso, per cui è molto pericoloso.
Siete pronti ad intervenire anche negli Stati limitrofi se l’epidemia si diffonderà?
Si, abbiamo team pronti ad intervenire. Alle frontiere si fa attenzione a prendere la temperatura delle persone. Ci tengo a ricordare che le persone non sono contagiose finché non hanno il primo sintomo, che nel 90% dei casi è la febbre. Perciò i ministeri della salute dei diversi Paesi hanno messo in piedi un sistema di screening della temperatura.
Ebola nella R.D.Congo è una delle tante emergenze dimenticate?
Penso sia stata un po’ dimenticata. Nelle ultime settimane se ne è parlato per la dichiarazione dell’Oms. Ma sui media europei e italiani poco, eppure l’epidemia c’è da un anno. Però bisogna sempre contestualizzare: è una regione in cui c’è un conflitto da 25 anni, negli stessi giorni c’è stata una epidemia di morbillo.
Il problema non è solo Ebola, è una zona che va aiutata per quanto riguarda la salute.
Qual è il vostro appello?
Dal punto di vista medico abbiamo strumenti in più, il problema è che da soli non sono sufficienti. E’ evidente che bisogna cambiare strategia. Ora si vaccinano tutti i contatti dei pazienti, più i contatti dei contatti. Ma se l’epidemia non si blocca vuol dire che non funziona, perciò stiamo chiedendo vaccinazioni a fasce di popolazione molto più allargate. Serve un cambiamento di strategia sulla vaccinazione – che non dipende da noi, anche se siamo partner del ministero della sanità – e tornare verso le comunità. Noi lo stiamo già facendo ma va fatto da tutti gli operatori che intervengono sul campo.