Stragi
Città lontane eppure tutte in lacrime per la stessa identica ragione: sparatorie di massa. Morti. Feriti. E gli autori sono ancora una volta bianchi, americani, armati di fucili che in un minuto hanno tranciato la vita di 9 persone nella zona culturale e notturna di Dayton e ne hanno uccise ben 20 al centro commerciale di Walmart a El Paso, mentre a Chicago si conta un morto e 11 feriti in un parco e in quartiere periferico. Mentre le vittime sono rimosse dai luoghi della tragedia, si prega, si veglia. Si è pregato ieri sera al muro di confine. Si prega nelle scuole, nella sede della squadra sportiva, nelle messe e nelle funzioni
(Corpus Christi – Texas) “Un’epidemia”. Una malattia diffusa, contagiosa, ampia. Il cardinale Daniel DiNardo non trova altre parole per definire il weekend di terrore che ha insanguinato gli Usa. El Paso, Dayton, Chicago. Città lontane eppure tutte in lacrime per la stessa identica ragione: sparatorie di massa. Morti. Feriti. E gli autori sono ancora una volta bianchi, americani, armati di fucili che in un minuto hanno tranciato la vita di 9 persone nella zona culturale e notturna di Dayton e ne hanno uccise ben 20 al centro commerciale di Walmart a El Paso, mentre a Chicago si conta un morto e 11 feriti in un parco e in quartiere periferico. Mentre le vittime sono rimosse dai luoghi della tragedia, si prega, si veglia. Si è pregato ieri sera al muro di confine. Si prega nelle scuole, nella sede della squadra sportiva, nelle messe e nelle funzioni. Dopo le file nelle scuole adibite a centri di informazione per chi cerca amici e parenti non ancora rientrati, o mentre si ingrossano le code per donare il sangue,
l’arcivescovo di El Paso e i leader religiosi della città si sono inginocchiati insieme per chiedere conforto ed implorare una svolta anche nella politica.
Cominciano a trapelare i nomi delle vittime e il primo è quello di una mamma di 25 anni, che con il suo corpo ha fatto scudo al piccolo di due mesi, mentre Patrick, il ventunenne che da Dallas era partito per scaricare la sua “rabbia di bianco” e per proteggere il suo Paese dall’invasione ispanica, la colpiva senza pietà. Il piccolo è vivo anche se ha riportato fratture alle ossa per la caduta. Resterà orfano anche del papà, che dopo aver portato la sorellina di 5 anni ad un party era corso da Wallmart per fare scorta di quaderni e colori. Anche lui è stato freddato da Patrick, che ha sparato indossando le cuffie, per non sentire il rumore dei colpi e le urla delle sue vittime. Il suo agire freddo e premeditato è stato classificato come “crimine d’odio e terrorismo interno” e Patrick sarà certamente condannato alla pena capitale, ancora attiva in Texas.
Il vescovo di El Paso, mons. Mark J. Seitz, ha visitato le vittime e i familiari, con in cuore le loro stesse domande: “Perché i bambini innocenti? Perché madri con i figli tra le braccia? Perché mai un essere umano dovrebbe essere sottoposto a così tanta violenza?”. Seitz ha chiaro quanto il governo, in questi mesi, ha messo a dura prova la città con i bambini rinchiusi nelle gabbie, nei centri di detenzione e la retorica sul muro e sull’invasione. Eppure “i confini hanno dimostrato al mondo che la generosità, la compassione e la dignità umana sono più potenti delle forze di divisione” continua il vescovo, che ben conosce la generosità della sua comunità composta dall’80% di ispanici che vivono in Texas fin dal 1690, quando il territorio era sotto il dominio spagnolo e furono i primi colonizzatori, i primi uomini a rendere fertile l’arido terreno texano. Quindi nessun invasione, sebbene cinque delle vittime siano messicane, poiché tra le città di confine gli scambi sono costanti e non ci sono solamente carovane o immigrati senza documenti. “Abbiamo dimenticato come essere compassionevoli, generosi e umani – ribadisce mons. Seitz -. La tenerezza e l’amore che non conoscono confini sono ora crocifissi dal turbinio mortale della ricerca di se stessi, della paura e della vendetta”. Da pastore poi, chiede che chi ha subito la violenza e che la comunità riscopra “in Cristo che ha sofferto, che si è fatto uno di noi, il nostro compagno”.
Ha il cuore pesante l’arcivescovo di Cincinnati, mons. Dennis M. Schnurr, ricordando la sparatoria tragica e violenta di Dayton. Chiede preghiere per la piccola comunità della sua diocesi, e “lo chiede a chiunque abbia fede perché si conosca la pace e la guarigione” soprattutto per le famiglie delle vittime: 9, ora tutte identificate. Tra i morti c’è una giovane afromericana, madre di una bimba nata da pochissime settimane, c’è uno stagista, il padre di quattro bambini e c’è la sorella di Connor Betts, il killer. Negli ospedali cittadini sono ricoverate 27 persone e la città è sotto shock anche perchè l’Ohio district, cuore della vita notturna, è il luogo più protetto, ma questo non ha impedito che l’AR-15, imbracciato da Connor con ben 100 colpi nel tamburo, stroncasse 9 vite in meno di un minuto. Il sindaco della città, Nan Whaley, ha assicurato che la piccola comunità si riprenderà, come ha fatto dopo i 14 tornado con cui ha battagliato nel mese di maggio. A lei si sono uniti altri 50 sindaci per chiedere una revisione delle norme sulla vendita di armi.
“Quando è troppo, è troppo. Il nostro Paese ha subito più di 250 sparatorie di massa dall’inizio dell’anno e non è più tollerabile”, ha ribadito il primo cittadino.
E con lei lo hanno ribadito varie fondazioni e organizzazioni tra cui Mom demands action e Every town for gun safety che hanno chiesto di scrivere ai senatori, lo zoccolo duro ad un eventuale riforma sul possesso di armi. A Chicago intanto le vittime delle ennesime sparatorie sono in gran parte afro-americane e gli investigatori stanno cercando di capire se la violenza è riconducibile al razzismo o ad una guerra fra bande.
“Le vite perse durante questo fine settimana ci mettono davanti ad una terribile verità; non potremo mai più credere che le sparatorie di massa siano un’eccezione isolata”, ha ribadito in una dichiarazione il presidente dei vescovi americani, card. DiNardo, che parla di obbligo nel “compiere azioni di prevenzione della violenza” e
incoraggia pubblicamente i cattolici “ad alzare la voce per sostenere i cambiamenti necessari alla nostra politica e cultura nazionale”.
DiNardo sa che una decisione politica può essere determinante, ma è il lavoro dal basso quello veramente indispensabile: potare le radici malate del nazionalismo e della supremazia bianca, piantare semi di accoglienza ed apertura, significherà raccogliere frutti nel futuro e solo questo non rende vano il sangue versato durante questo week-end.