L'analisi
Il cappellano del carcere romano, dove sono reclusi i due giovani americani accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, parla del fenomeno delle dipendenze: “Lontani dalle sostanze stupefacenti, questi ragazzi che vivono storditi possono recuperare l’uso della loro testa”
“Il carcere spezza la dipendenza dalla droga. Ma bisognerebbe trovare, in alcuni casi, altre vie di rieducazione”. Lo afferma padre Vittorio Trani, cappellano del carcere “Regina Coeli”, a Roma, di fronte ai recenti casi di cronaca che hanno visto protagonisti giovani in preda a dipendenze, dall’alcol come dal sesso o dalla droga. È il caso, quest’ultimo, dei due americani, reclusi proprio nel penitenziario romano, con l’accusa di aver ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega. Ma non è il solo.
C’era alcol nel sangue del giovane che ha speronato e ucciso due ragazzi su una vespa in provincia di Bergamo, dopo una lite in discoteca. Rubavano per comprare droga, invece, i sei ragazzi della “banda dello spray”, tutti tra 19 e 22 anni, responsabili della strage Corinaldo, in provincia di Ancona, dove tra il 7 e l’8 dicembre dello scorso anno morirono schiacciati dalla calca, in discoteca, cinque adolescenti e una giovane mamma. “I ragazzi con l’ansia della droga sono persone che non capiscono più nulla”, sa bene padre Trani, frate minore conventuale, che – grazie all’esperienza come cappellano del Regina Coeli – si è confrontato con tante storie di dipendenza da sostanze stupefacenti. Soprattutto nei giovani.
Una tra le più recenti è quella dei due ragazzi americani accusati dell’omicidio del vicebrigadiere, nei giorni scorsi, a Roma. Al momento che cosa avete fatto per loro?
I nostri volontari si sono occupati dei due ragazzi come di tante altre persone, fornendo beni di prima necessità. Quando una persona viene portata qui arriva con quello che ha addosso. Per cambiarsi è necessario che qualcuno gli dia dei vestiti puliti. Prima che la famiglia riesca a ottenere le autorizzazioni per fare arrivare dei beni passa qualche giorno. E chi arriva qui non ha dalla struttura pubblica un aiuto. Nel frattempo, si attiva il nostro volontariato che si fa carico di venire incontro a queste necessità. Lo facciamo per tutti e lo abbiamo fatto anche per questi ragazzi. Per una linea pastorale di rispetto, invece, aspettiamo sempre che siano i detenuti a chiedere un incontro per parlare.
Secondo lei, come è possibile recuperare ragazzi che hanno compiuto un delitto efferato come quello del carabiniere ucciso a Roma e che sono dipendenti da sostanze stupefacenti?
Ognuno ha una sua storia. C’è chi riesce nella fase successiva a eventi di questo tipo a cominciare un percorso di presa di coscienza, di riflessione. Altri non riescono ad avere questa apertura. Si può dire che il carcere è una specie di osservatorio dei problemi che stanno nella società. Qui approda quel numero ristretto che vive vicende molto tristi legate alla droga e all’alcol, a un sistema di vita. Ma fuori il problema è molto allargato.
E cosa si può fare?
A livello generale bisognerebbe lavorare per creare una cultura del rispetto di se stessi.
I ragazzi sono in balìa di schemi di vita poveri e che li porta a fare delle scelte distruttive.
Quindi, bisogna lavorare per creare una cultura che abbia nella proposta cristiana una linea forte, grazie alla quale fare capire cos’è la vita. Ci sarebbe da studiare la famiglia.
Una volta in carcere, però, cosa succede?
Succede una cosa strana. Io ritengo che il carcere non comunichi opportunità positive, essendo i carcerati privati della libertà e degli affetti. Ma, pur nella stranezza di questa realtà, per chi vive esperienze di alcol e di droga il carcere offre una possibilità straordinaria:
quella di trovarsi, anche se forzatamente, lontano dalle sostanze stupefacenti. Questi ragazzi, che vivono storditi, possono recuperare l’uso della loro testa.
Non per tutti, ma per molti nasce l’opportunità di una riflessione. Riescono a scoprire che si sono dati la morte da sé, seguendo quello schema. Si apre quindi per alcuni un momento di riflessione molto forte. E chi sta loro vicino deve impegnarsi perché riescano, nel rispetto massimo della persona, a compiere un tempo della semina di proposte positive.
C’è un esempio che può indicare in questa direzione?
Ricordo un elettricista di 27 anni che ha finito per far uso di cocaina. All’inizio per divertimento, poi ne è diventato schiavo. Adorava i genitori, si è trovato, in balia della cocaina, a maltrattarli, a picchiarli, a chiedere loro soldi per comperarla. Quando è entrato in carcere, questo ragazzo ogni giorno si batteva la testa al muro chiedendosi come avesse potuto fare. E aveva iniziato, in questa fase di carcerazione, un percorso per chiedere perdono ai propri genitori. Dopo essersi interrogato del perché fosse finito lì, ha avviato un cammino a tappe per ritrovarsi.
Nel carcere, grazie alla lontananza dalla droga, aveva acquisito la chiarezza del baratro in cui era caduto.
Ciò succede a più di qualche ragazzo. Non è un fatto che riguarda tutti, ma più di qualcuno. Lo psicologo, il sacerdote e il volontario, il personale stesso devono sapere stare vicini a questi ragazzi.
Si sono verificati episodi di persone che hanno giudicato positivo anche il momento in cui sono finite in carcere, perché, da lì, sono riuscite a ricominciare?
Mi è capitato spesso di sentire ragazzi che hanno detto: ‘menomale che mi hanno arrestato perché stavo andando veloce verso la fine’. Quindi, la carcerazione è anche letta come una specie di mano provvidenziale che li ha fermati. Un giorno, incontrai nel corridoio un operaio che avevo conosciuto mentre faceva lavori su un terrazzo. Mi raccontò che la carcerazione lo aveva svegliato dal suo sonno. Si era innamorato di una ragazza in un night. Andarono a vivere assieme. E lei cominciò a chiedergli soldi. Lui vendette la macchina, la casa. Quando non aveva più nulla da darle, la ragazza gli disse che aveva usato tutti quei soldi per comprare la droga e che, se avesse voluto stare ancora con lei, doveva fare il corriere della droga. E lui ringraziava Dio che la prima volta che prese il primo pacchetto di droga fu arrestato dai carabinieri. Questa vicenda dice come, in alcuni casi, la carcerazione possa avere permesso ad alcune persone di evitare qualcosa di peggio.
Come si può far fronte, invece, alle ferite lasciate dal carcere, in termini di solitudine e isolamento?
Il carcere è uno status di ‘semi-morte’ per una persona, perché la priva di libertà, dell’esercizio del mondo affettivo. Diventa una situazione che lede la dignità di persona. In generale, lascia ferite molto profonde. Anzitutto, il fatto di essere stati in carcere per la società in cui viviamo è un’etichetta, a prescindere dall’innocenza. Noi dovremmo un po’ recuperare, come cittadini, uno stile di giustizia dove al primo posto mettere la dignità della persona.
Prima di esporla all’esperienza del carcere, si dovrebbero cercare tutte le altre vie possibili di rieducazione.