Politica
Il nuovo governo, atteso ora alla prova non scontata del Parlamento, dovrà trovare la quadra su molti punti controversi, a partire dalla questione migranti (su cui cercare un difficile equilibrio) e dalla incalzante stagnazione economica (nonostante il vento favorevole dei mercati). Salvini intanto li attende al varco delle non lontane elezioni regionali, primo utile test per Conte e per il Paese.
Nella giornata di mercoledì dunque la salita al Quirinale da parte del presidente incaricato Giuseppe Conte per sciogliere la riserva e per presentare al presidente della Repubblica la lista dei ministri. I due nuovi “alleati” – con il determinante ruolo di Conte – sono riusciti nell’impresa che appariva senz’altro ardua, ma quasi “obbligata”. Dopo le lunghe trattative sui programmi e soprattutto sulle poltrone, si conclude così anche il totoministri con i nomi finalmente definiti dal premier e accolti dal Colle. In realtà, tutta la vicenda ha un che di surreale, se si pensa ai punti di partenza, cioè allo sgambetto di Salvini in pieno agosto e soprattutto alla ferma e conclamata decisione del M5S e del Pd di non mettersi “mai” insieme. Come si sa, è stata la spregiudicatezza di Renzi a “spingere” Zingaretti e la intuizione tragicomica di Grillo a “costringere” Di Maio sulla strada dell’accordo. Così il neosegretario dem e il capo politico del Movimento hanno dovuto procedere controvoglia ma alla fine adeguandosi all’ineluttabile. L’uno e l’altro hanno perso qualcosa e guadagnato qualcos’altro. Zingaretti che proclamava la “discontinuità” si è ritrovato con un Conte bis, ma in compenso ha piazzato imprevedibilmente il suo partito in buona posizione al governo; ha dovuto cedere alla pesante inventiva di Renzi, ma ha condotto in prima persona le trattative. Di Maio che pretendeva il vicepremierato, ha dovuto accontentarsi di un ruolo più defilato, ma ha tenuto il punto sui suoi …20 punti (che poi sono diventati 26…); ha perso prestigio all’interno del Movimento a favore di Conte (che si ostina a definire “super partes”), ma ha avuto la soddisfazione di far funzionare alla perfezione la piattaforma Rousseau. A proposito, curiosa davvero questa storia – definita con orgoglio un “unicum” in tutto l’Occidente (anzi in tutto il mondo…) – con un parere vincolante affidato a circa 100.000 iscritti e col responso favorevole del 79% (cioè, come rileva beffardamente la Meloni, lo 0,5% degli elettori del M5S) più importante rispetto al parere del Parlamento: emblema delle assurde pretese della democrazia diretta sulla democrazia rappresentativa! A questo punto, comunque, non si può negare che le due formazioni politiche – l’erede dei partiti storici e l’alfiere dei movimenti antisistema – hanno già avviato una fase di evoluzione che li porta ad un’inevitabile mutazione. Il Pd si acconcia ad un impensabile accordo col M5S, a suo tempo rifiutato e demonizzato, e dovrà trasformare le sue politiche per concordare linee comuni con chi ha sempre avversato votandogli contro in aula per oltre un anno ai vari provvedimenti. I cinquestelle (per quanto cerchino di mascherare la realtà…) hanno già cominciato a rimangiarsi gran parte del detto e dell’operato precedente (ad esempio in tema di europeismo…). In ogni caso il nuovo governo, atteso ora alla prova non scontata del Parlamento, dovrà trovare la quadra su molti punti controversi, a partire dalla questione migranti (su cui cercare un difficile equilibrio) e dalla incalzante stagnazione economica (nonostante il vento favorevole dei mercati). Salvini intanto li attende al varco delle non lontane elezioni regionali, primo utile test per Conte e per il Paese.
(*) direttore “Nuova Scintilla” (Chioggia)