Geopolitica

Cosa succede a Hong Kong? Un’analisi delle proteste e della situazione internazionale

Le ragioni delle manifestazioni a Hong Kong sono complesse. C’è, prima di tutto, l’equilibrio fragile di un territorio “senza futuro”: dopo il ritorno sotto la sovranità della Repubblica popolare nel 1997 la prossima scadenza è il 2047, quando l’ex colonia dovrebbe tornare integralmente a far parte della Cina continentale. E non sono i poveri a protestare, piuttosto i borghesi che vedono messa a rischio la propria prosperità, non tanto a causa delle “ingerenze” della Repubblica popolare quanto per il mutato contesto economico internazionale

Spaccare una vetrina a Hong Kong è diverso che farlo a Parigi? Per una certa scuola mediatica occidentale sì, certamente: i “casseurs” francesi profumano di teppismo, mentre chi insorge in Asia è un portabandiera delle libertà, dei diritti umani, ecc. Nel passato è stato così anche per le “primavere arabe”, per le proteste in Venezuela; e ancor più recentemente per le manifestazioni in occasione delle elezioni amministrative a Mosca… Forse dovremmo ricordare più sovente che l’informazione, e la manipolazione dell’informazione, fanno parte della politica – soprattutto quando si tratta di incidere in modo massiccio sull’opinione pubblica.

La legge sull’estradizione che aveva dato origine alle proteste, la primavera scorsa, è stata ritirata. La posizione della governatrice Carrie Lam appare ulteriormente indebolita: la gente di Hong Kong continua a vedere in lei una esecutrice obbediente di ordini che vengono da Pechino; e non sono certo bastate le promesse di nuovi investimenti nel “sociale” a raffreddare il clima delle proteste.

Le ragioni delle manifestazioni a Hong Kong sono, però, più complesse. C’è, prima di tutto, l’equilibrio fragile di un territorio “senza futuro”: dopo il ritorno sotto la sovranità della Repubblica popolare nel 1997 la prossima scadenza è il 2047, quando l’ex colonia dovrebbe tornare integralmente a far parte della Cina continentale. Nei primi 22 anni di applicazione dell’accordo “un Paese, due sistemi” Hong Kong ha continuato a crescere: il suo Prodotto interno lordo pro capite è di 46.109 dollari americani (l’Italia è a 32 mila, la Francia a 39 mila; e la Repubblica popolare a 8.643: dati 2018 del Fondo Monetario Internazionale). Ma le disuguaglianze sono enormi: il 20% della popolazione dell’ex colonia vive sotto la soglia di povertà. E non sono i poveri a protestare, piuttosto i borghesi che vedono messa a rischio la propria prosperità, non tanto a causa delle “ingerenze” della Repubblica popolare quanto per il mutato contesto economico internazionale. E quando vi furono le manifestazioni dei “poveri”, come le donne filippine che a Hong Kong vengono a fare le domestiche, a centinaia di migliaia, a nessuno venne in mente di parlarne – in Occidente come in Oriente.

Dal punto di vista dei numerosi miliardari (in dollari americani) e del vasto milieu finanziario, più che le “libertà” e i diritti umani dei 7 milioni di abitanti sembra pesare il posizionamento dell’isola ai vertici mondiali del commercio e della finanza. Quando erano sudditi (mai cittadini) della Corona britannica le possibilità di arricchimento illimitato erano garantite, e nessuno protestava… Nel 1997 il 27% delle transazioni commerciali da e per la Repubblica popolare passava per Hong Kong: oggi questa percentuale si è ridotta al 3%; la piazza finanziaria di Shanghai è cresciuta in modo esponenziale. E la stessa Shenzen, la città satellite costruita dal nulla al confine dei Nuovi Territori, ha acquisito gran parte delle lavorazioni manifatturiere – qui si trova, per esempio, la sede principale di Huawei, il colosso cinese della telefonia cellulare.

Hong Kong è fragile, poi, a causa del particolare momento della politica internazionale. L’ex colonia è una pedina, e non la meno importante, del confronto globale fra Cina e Stati Uniti: una partita che è insieme economica e finanziaria, geopolitica e militare. E in cui nessuna delle due superpotenze sembra pronta a prendere atto che il dato di fondo è la crescente interdipendenza fra i due sistemi.

C’è la questione del debito pubblico americano, che quasi per metà è in mano ad investitori cinesi (cioè al governo della Repubblica popolare); così come ci sono i tentativi di Pechino di continuare a mantenere una crescita economica “a due cifre” anche quando i mercati mondiali appaiono saturi di prodotti cinesi e la domanda globale rallenta. Così Pechino applica quelle regole da Stato sovrano che gli Stati Uniti adottano da decenni, e che prima di loro furono proprie delle potenze europee: svalutare, per rendere competitive le esportazioni. In specifico, Pechino ha già cominciato a uscire dalla parità fissa per lo yuan, e la sola fluttuazione permette di “respirare” all’intero sistema economico. C’è poi, sul piano economico ma politico insieme, la questione del dollaro. Dal 1919 (o dal 1945, a seconda di come si voglia ragionare) la moneta americana è il principale strumento di scambio internazionale: in dollari è nominato, per esempio, il prezzo del petrolio. L’euro non è riuscito, per vari motivi, a scalzare questo primato (e a incassarne i relativi vantaggi). Ma Pechino potrebbe provare a candidare la propria moneta per questo ruolo. O potrebbe – la proposta è stata fatta uscire in questi giorni – lanciare una valuta virtuale sovrana, come la “libra” di Facebook, per sostituire il dollaro nei pagamenti internazionali… Il peso e la portata di tali questione aiutano a comprendere il grande agitarsi mediatico del presidente americano, e il simmetrico silenzio cinese…

Le questioni territoriali sono un altro capitolo caldo.

Gli Stati Uniti, fin dalle crisi del 1958, sono formalmente impegnati a garantire la libertà e l’indipendenza di Taiwan e delle altre piccole isole, vicinissime alla costa della Cina continentale; e a Taiwan dispongono di forze militari praticamente illimitate. Nello stesso Mar Cinese meridionale, per altro, la Repubblica popolare ha avviato una delicata partita di rivendicazioni territoriali, in particolare sulle isole Paracelso, contese anche da Vietnam e Filippine. I contenziosi sono aperti da decenni: ma possono diventare da un giorno all’altro pretesto per chiunque volesse approfittare della fragilità diplomatica. Grazie a Trump il mondo ha perso di vista il multilateralismo e una visione sovranazionale dei problemi, per affidarsi invece ad “accordi bilaterali” che, per adesso, non hanno fruttato grandi risultati: né in Medio Oriente né in Afghanistan, né nel confronto con la Corea del Nord. E ancor meno con l’Iran.

Che c’entra Hong Kong con questi scenari? L’isola e i Nuovi Territori sono presenti in ciascuno di essi; e in questo momento sembrano essere il terreno su cui lo scontro indiretto delle politiche globali e degli interessi finanziari possono essere celebrati senza troppi danni collaterali. Se la nuova guerra fredda è soprattutto economica, la piazza di Hong Kong è davvero – purtroppo – il campo di battaglia ideale.