Intervista

Europa alla ricerca di un’identità? Graglia: “il manicheismo è la morte della storia”

Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in occasione dell’80° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale suscitando contestazioni politiche e dibattito fra gli studiosi. A sua volta nella futura Commissione figura una delega che richiama la “protezione dello stile di vita europeo”. Ne parliamo con il biografo di Altiero Spinelli, docente di Storia dell’integrazione comunitaria: “l’unico pregio che vedo” nel testo dell’Europarlamento “è quello di invitare a non abbassare la guardia rispetto al risorgere dei totalitarismi e alle letture che li giustificano”

Durante l’ultima sessione plenaria, svoltasi dal 16 al 19 settembre a Strasburgo, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in occasione dell’80° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale. L’intento era quello di definire una “lettura comune” della storia del vecchio continente. Attorno a questo testo si sono sviluppate infinite polemiche a carattere storico e politico, in Italia e in altri Paesi europei. Sul tema abbiamo sentito il parere di Piero Graglia, docente di Storia dell’integrazione europea all’Università degli Studi di Milano e biografo di Altiero Spinelli, “padre” del federalismo.

Professore, quali sono secondo lei i pregi e i difetti di questa risoluzione?
L’unico pregio che vedo nella risoluzione è quello di invitare a non abbassare la guardia rispetto al risorgere dei totalitarismi e alle letture che li giustificano. I difetti invece sono numerosi. La risoluzione nasce da una base “orientale”: è stata all’inizio impostata da un gruppo di parlamentari del gruppo Ecr (Conservatori e riformisti europei) e tradisce chiaramente la foga anticomunista comprensibile nei Paesi dell’Europa centrale e orientale. Evidentemente l’esperienza di un polacco o di un ceco rispetto al comunismo sovietico non può essere quella di un italiano, un francese o uno spagnolo. Comprensibile quindi la sottolineatura di condanna di ogni totalitarismo, nazismo e comunismo sovietico appaiati sulla base dell’esperienza storica vissuta dopo il 1945. Secondo me però vi sarebbe stato bisogno di una sintesi che riconducesse la giusta condanna dei totalitarismi separando la natura diversa di due ideologie politiche: Primo Levi ammoniva che nazismo e comunismo, lager e gulag, non sono la stessa cosa. Il nazismo sorge già con l’intento oppressivo e genocida che poi ha messo in atto; il comunismo sovietico è la deviazione, direi la degenerazione, di un’idea di emancipazione che nasce da una radice settecentesca di umanitarismo ed egualitarismo e si sviluppa per tutto il XIX secolo in testi che non sostengono lo sterminio dei diversi o il razzismo o il genocidio. Ecco, la complessità della storia europea, e la varietà delle esperienze, dovrebbero essere tenute in conto evitando di sostenere che qualsiasi esposizione di un simbolo relativo al comunismo equivale all’esposizione di un simbolo nazista.

Perché?
Perché si arriverebbe all’assurdo di dover considerare Berlinguer alla pari di Berija (capo della polizia segreta dell’Urss di Stalin), quando l’unica cosa che avevano in comune era l’iniziale del cognome. Senza contare che gran parte delle motivazioni che portarono al sorgere di ideologie socialiste e comuniste sono ancora presenti nelle nostre società: l’ineguaglianza, lo sfruttamento, la povertà. Sono il nostro fardello, i nostri problemi di oggi che possono essere risolti anche usando strategie e politiche alternative al socialismo e al comunismo ma di certo attingendo ai valori di eguaglianza e giustizia sociale che ne sono alla base. Invece ciò che originò il nazismo e il fascismo – l’irrazionalismo novecentesco, il nazionalismo, il razzismo – sono elementi di cui non si sente proprio il bisogno. Inoltre, altro limite sensibile della risoluzione – e parlo da storico – è definire il patto Molotov-Ribbentrop come l’origine del conflitto. Sicuramente tale accordo di non aggressione – e spartizione della Polonia e di altri territori – tra Germania e Unione Sovietica rese possibile a Hitler attaccare la Polonia senza il rischio di combattere su due fronti, ma pari importanza ebbe anche l’accordo di Monaco del settembre 1938, definitiva e tragica accettazione da parte di Francia e Gran Bretagna delle pretese tedesche sulla Cecoslovacchia e apogeo dell’appeasement; oppure, risalendo più indietro, la guerra civile spagnola del 1936, “prova generale” del conflitto mondiale; o infine una faccenda tutta italiana che non fu solo italiana: l’aggressione all’Etiopia dell’ottobre 1935, primo vero scossone alla stabilità europea e all’ordine di Versailles quando ancora Hitler era considerato dai britannici un “gentiluomo tedesco” e il bullo era Mussolini. Insomma, definire il Patto Molotov-Ribbentrop come uno dei presupposti, numerosi, per l’aggressione tedesca alla Polonia, va bene, farne la “causa” del conflitto al solo scopo di parificare comunismo sovietico e nazismo, è forzato, risponde a un tipo di sensibilità politica regionalmente circoscritta, che non può essere fatta propria da tutto il Parlamento europeo.

Insomma, la storia “tirata per la giacca”?
Si ripropone un tema importante: la definizione della storia e dei suoi confini tematici per decreto. La storia, direbbe De Gregori, siamo noi; in quella canzone rende molto meglio il senso della complessità e della mille sfaccettature dell’esperienza umana rispetto ai mille “considerato che”, “preso atto che” che costellano la risoluzione del Parlamento Ue. Infine, la risoluzione non dà conto delle molte colpe che avvolsero tutti gli europei, vincitori e vinti, prima e dopo il conflitto: non dà conto dei molti regimi fascisti dell’est europeo negli anni Trenta e Quaranta che si macchiarono di crimini pari a quelli della Germania nazista, non dà conto del collaborazionismo in Paesi come l’Italia e la Francia, presenta una lettura monocorde e monocolore della storia: tutto il bene da una parte, tutto il male dall’altra. Il manicheismo è la morte della storia.

La presidente eletta della Commissione europea ha inserito tra le deleghe del futuro Collegio anche quella dedicata alla “protezione dello stile di vita europeo”. Decisione fortemente criticata da diverse personalità della cultura e della politica e persino dal presidente uscente Juncker. A suo avviso è possibile definire uno “stile di vita” europeo?
Credo che l’Unione europea abbia per così tanto tempo evitato di affrontare quelle politiche e quegli aspetti che creano “identità” (come un’unica politica estera e un’unica politica di difesa, un esercito) che si trova costretta ad arrampicarsi sugli specchi del presente per definire ciò che è indefinibile. Uno stile di vita europeo? E perché non uno stile di vita toscano, o berlinese, o veneto, o calabrese? A Roccella Jonica ceno alle 22, ad Arezzo alle 20, a Berlino alle 19! Si toccano vette di ridicolo nel cercare di normare ciò che non è normabile se non in un impossibile sogno da grande fratello orwelliano (o meglio, non sogno, incubo). Forse, lo capisco, l’americanizzazione dei costumi, dei comportamenti, della subcultura popolare è percepita come un problema, ma alla fine uno stile di vita europeo esiste solo in quanto sommatoria, o sintesi, di diverse modalità di relazione: sorridiamo di più per strada rispetto agli statunitensi, ad esempio, ci sentiamo più garantiti socialmente rispetto a malattie e disagio sociale, ma usare l’espressione “stile di vita” è operazione scivolosa e pericolosa perché mira all’omogeneizzazione, o almeno alla catalogazione. Perché l’Unione vuole catalogare tutto? Non è stile di vita anche rifuggire da eccessi di catalogazione e di controllo sociale? Fossi il commissario delegato alla “protezione dello stile di vita europeo” farei solo una prima dichiarazione e poi restituirei la delega: “il nostro stile di vita europeo è fondato sul rifiuto della definizione di uno stile di vita europeo”. Sarebbe elegante e intelligente, anche se richiamerebbe un po’ i Monty Python.