Clan Spada
Ieri, martedì 24 settembre, la Corte d’Assise di Roma ha comminato 3 ergastoli al clan Spada e, ancora più importante, ha messo nero su bianco che la loro è un’associazione per delinquere di stampo mafioso. La cronista de La Repubblica, sotto scorta proprio per le sue inchieste per la mafia a Ostia, gioisce per questa sentenza, che avvalora il suo lavoro, ma soprattutto perché vede un nuovo protagonismo e una nuova voglia di cittadinanza tra le persone, che per anni sono restate in silenzio per paura
Come il risveglio dopo un brutto sogno o come una risalita a galla dopo una lunga apnea. Sono le sensazioni che oggi vive Federica Angeli, giornalista de La Repubblica dal 2013 sotto scorta per le sue inchieste sulla mafia a Ostia, dopo la sentenza della Corte d’Assise di Roma, che ha stabilito che il clan Spada costituisce “un’associazione per delinquere di stampo mafioso”, nel processo celebrato nell’aula bunker di Rebibbia, a carico di 24 imputati legati alla famiglia di Ostia. Ergastoli per i capi Carmine Spada, detto Romoletto, per Roberto Spada, già condannato per la vicenda della testata a un giornalista della Rai, e per Ottavio Spada, detto Marco. Sono in tutto 17 le condanne inflitte nel processo. Sette gli imputati assolti nel procedimento.
Federica, come giudichi la decisione della Corte d’Assise?
È una sentenza importante perché certifica che a Ostia esiste la mafia e al clan è la prima volta che viene contestato un 416 bis. Soprattutto, a differenza del clan Fasciani – considerato più potente e arrestato nel 2013 per mafia, per loro ora aspettiamo la Cassazione dopo la sentenza in appello -, gli Spada hanno avuto contestati due omicidi di mafia, esattamente come avviene nelle terre del Sud dove ci si ammazza per prendere il posto di quel clan: Giovanni Galleoni e Francesco Antonini, ex banda della Magliana, sono stati uccisi nel 2011 in una faida tra famiglie mafiose.
Questa sentenza è una soddisfazione anche dal punto di vista della cronista…
Giornalisticamente parlando questa sentenza rappresenta la chiusura di un cerchio. Il giornalismo d’inchiesta questo deve fare: chiamare i fenomeni per quello che sono nel momento in cui ci si rende conto che sono questo. Con tutti i rischi che un’inchiesta pioniera comporta: la mafia romana non doveva esistere e non esisteva. Quindi il bollo della magistratura avvalora un’inchiesta giornalistica.
E umanamente?
Il boss Carmine Spada, condannato ieri all’ergastolo, fu quello che fece a mio figlio primogenito, quando aveva otto anni, il segno della croce, al tempo della mia prima inchiesta. Avendo avuto l’ergastolo, per legge gli decade la potestà genitoriale: giustizia è fatta anche a livello umano. Infatti,
una persona che se la prende con dei bambini non ha il diritto di essere padre.
Cosa è successo esattamente?
Nel 2013, quando ero da pochi mesi sotto scorta, a novembre Carmine Spada incontrando mio figlio, sotto casa mia, si è alzato gli occhiali e ha fatto il segno della croce. Il bambino era con mio marito. Quando è tornato a casa, me lo ha raccontato e io mi sono messa a ridire, dicendo: “Che bello, ti ha fatto la benedizione, si avvicina Natale”. Mio figlio così ha creduto. Abbiamo cercato di filtrare tutte le cose brutte. Oggi, a 14 anni, può comprendere la portata di quel gesto, ma per noi è stato importante che a 8 anni non gli arrivasse la paura e la cattiveria di una promessa di morte.
Hai avuto paura?
Sì, io conoscevo dall’inizio la caratura di questi personaggi e di cosa erano capaci anche da cittadina di Ostia, non solo da cronista, avendoli osservati e raccontati: lo sentivo sulla mia pelle e lo vedevo negli occhi dei miei concittadini. Vivere con questa angoscia che hai di fronte persone spietate e che possono toccare i tuoi affetti per farti smettere di parlare e spingerti al silenzio non è stato per niente facile.
La sentenza della Corte d’assise è stato come uscire da una lunga apnea, riprendere fiato.
Infatti, oggi mi sento un po’ stordita, come quando esci da sotto l’acqua e ricominci a respirare, i polmoni ricominciano a incamerare aria. Oggi così mi sento, una sensazione molto strana.
La tua famiglia non ti ha mai chiesto di fermarti?
Non mi è stato mai detto direttamente. Non lo ha fatto nessuno della mia famiglia, compreso mio marito che, pur non condividendo appieno questa mia scelta di vita, non mi ha mai mollato un attimo. Ma il senso di colpa di avere la responsabilità che gli effetti del mio lavoro potesse ricadere su altri – ho tre figli, due maschi oggi di 14 e 11 anni, e una femminuccia di 10 – mi ha logorato.
Questa sentenza è la dimostrazione che non vincono sempre i cattivi.
Mentre nella maggior parte, purtroppo, è così, in questo caso fortunatamente no.
Le istituzioni ti sono state vicino?
L’amministrazione precedente è stata molto presente e vicina, non solo attraverso i tweet o la solidarietà quando ricevevo una minaccia, ma anche attraverso una telefonata. Di quella attuale non posso dire lo stesso, anzi. A volte mi sembra di aver percepito tanto astio se non anche un attacco frontale. L’ultima riguarda la censura, nel luglio scorso, del mio volto da un murales scelto dai ragazzini di Ostia. Un’azione giustificata sostenendo che io sono una persona divisiva. Se per divisiva s’intende “o con me o con la mafia”… Credo che censurare un’idea di ragazzi che identificano nel mio volto una persona che ha fatto qualcosa per questo territorio sia un messaggio, che, consapevolmente o inconsapevolmente, va a vantaggio dei clan.
Senti la gratitudine della gente?
Stamattina ero a brindare in un bar con mio figlio Alessandro, uscito prima da scuola, e c’era un gruppo di signore al tavolo vicino al nostro. Quando ci siamo alzati mi hanno fatto i complimenti, mi hanno stretto la mano e mi hanno detto: “Grazie a lei siamo libere”. Oggi sento un clima particolare intorno a me, come se Ostia fosse stata appesa in un lungo sonno e ora si sveglia improvvisamente come baciata dal principe, in una favola con lieto fine. Oggi c’è un bel clima, ma non è stato così in questi anni: la gente, per paura, per mancanza di fiducia sul come potesse andare a finire, ha preferito il silenzio alla presa di posizione a mio vantaggio; non tutti, ovviamente, c’è stata una parte della cittadinanza che si è unita a me. Anche ieri in Aula c’erano una sessantina di persone, diversamente dal 6 giugno 2018, quando è iniziato il processo: allora ero sola in quell’Aula. Ieri non c’erano le vittime, ma cittadini curiosi e con la voglia di essere protagonisti. Questo per me è un segnale importante.
Forse, vincere è proprio questo: vedere le persone scavalcare le proprie paure, più ancora di una sentenza di condanna.
Pensi di essere da esempio per altri giornalisti?
Io credo che ci siano tanti colleghi come me. Io lavoro in un giornale importante e, quindi, ho una visibilità diversa da altri, ma anche nelle piccole realtà, nelle retrovie, nei giornali locali e nelle agenzie ci sono cronisti che fanno un lavoro di denuncia e coraggioso come il mio. Non sono un’eccezione. Se la mia storia può essere di incoraggiamento sono felice, ma ci sono tanti che lavorano così e danno tanto alla nostra professione, ognuno nel suo campo.
Per il futuro ti senti ottimista?
La sentenza sul clan Spada e quella sul clan Fasciani restituiscono un po’ di fiducia ai cittadini. E se è vero che le mafie si nutrono di silenzio e di buio sapere che c’è una cittadinanza che si è formata gli anticorpi, in una realtà come questa, è un segnale positivo. Certo, non possiamo dire che è stata sconfitta la mafia romana. Ci sono state 7 assoluzioni, tra cui quella di Armando Spada che mi ha sequestrato e minacciato di morte nel 2013 e rimesso in libertà per insufficienza di prove.
Non abbiamo sconfitto la mafia, ma i presupposti per i quali la mafia si regge in un territorio, soprattutto con il risveglio delle persone.
Ma c’è ancora tanto da fare.