Sinodo dei vescovi
La Chiesa guarda con preoccupazione all’Amazzonia e vi dedica un Sinodo: è la risposta alla richiesta di aiuto che fin dal 2014 si è alzata dalla Rete ecclesiale panamazzonica sorta a difesa di questa vasta e cruciale parte di mondo. L’appello ci riguarda: stiamo tutti perdendo quell’eden e con esso l’equilibrio del pianeta. Anche se il morire tocca ancora agli indios
Era un eden di foreste e farfalle, ora è una bolgia scavata dai minatori, sfruttati come la loro terra dai predatori delle multinazionali. Ad essa la Chiesa di Papa Francesco dedica il Sinodo che si tiene a Roma dal 6 al 27 ottobre.
Può sembrare strana, a noi che stiamo dall’altra parte del mondo, tanta attenzione per l’Amazzonia, che è molto più che il polmone del pianeta minacciato da un disboscamento feroce, come hanno dimostrato i roghi d’agosto.
L’Amazzonia è grandissima: 34 milioni di persone su quasi 8 milioni di km quadrati, divisi tra nove Paesi dell’America Latina: Brasile (per il 67%), Perù, Bolivia, Colombia, Ecuador, Venezuela, Guyana, Suriname e Guyana francese. Il Rio delle Amazzoni la attraversa per 7 mila km (7 volte l’Italia). Dall’Amazzonia vengono: il 15% dell’acqua dolce non congelata del pianeta, il 50% di piante e animali, il 34% dei boschi primari. È un sistema vivo che regola il clima del globo: mantiene l’umidità dell’aria dalla quale si origina un terzo delle piogge della Terra. Ecco perché il cardinale brasiliano Clàudio Hummes, relatore generale dell’imminente Sinodo, ha dichiarato: “La crisi socio ambientale dell’Amazzonia riveste un’importanza planetaria” (informazioni e citazione dal libro di Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, “Frontiera Amazzonia. Viaggio nel cuore della terra ferita”, Emi editore).
Perché la Chiesa dedichi all’Amazzonia le sue attenzioni lo ha fatto comprendere anche il segretario di Stato, card. Pietro Parolin, parlando all’Onu lo scorso 23 settembre: “Dalla distruzione insensata delle foreste deriva grande sofferenza umana. L’impatto è sentito principalmente da coloro che dipendono dalle foreste… La cura per la nostra casa comune, e la cura per i nostri fratelli e sorelle in tale casa, devono andare di pari passo…”. Parole che racchiudono il concetto di quella ecologia integrale introdotta da Francesco con la Laudato si’ e che anche la giovane Greta porta avanti: se siamo tutti sullo stesso pianeta, siamo tutti chiamati a difenderlo.
Certo, il Papa lo fa con lo spirito del padre che si china sulla figlia malata. Lui che, nel gennaio 2018, ha cominciato la sua visita al Perù da Madre de Dios, regione dove ha origine il grande fiume e dove la vita della foresta e dei suoi abitanti è violentata da un’economia di rapina. Lui che ci invita a guardare a quanto sta accadendo.
L’Amazzonia peruviana era davvero un eden: 1.200 specie di farfalle, oltre mille specie di uccelli, 155 anfibi, 132 rettili, i puma e perfino di quel tigrillo (gatto selvatico) coprotagonista de “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” di Luis Sepulveda. Oggi l’incanto è in via di estinzione, perché questo significa perdere la biodiversità.
I guai sono cominciati a fine Ottocento con l’arrivo dei cercatori dell’oro bianco, il caucciù, che si estrae tagliando le cortecce degli alberi: sacrilego abominio per gli indigeni. Oggi che la plastica lo ha soppiantato, è la ricerca dell’oro a devastare le rive del fiume. Corsa resa più facile dalla costruzione, nel 2000, dell’autostrada Interoceanica: 5mila km d’asfalto che hanno tagliato la foresta e richiamato indios prima nei cantieri, poi nelle miniere. Il prezzo dell’oro salito alle stelle (+360% in un decennio) ha fatto il resto.
Dall’entroterra sempre più misero, rispetto alla vita del modello occidentale che la globalizzazione esporta, partono gli uomini per lavorare come cercatori e lo fanno immersi in pozze di mercurio (usato per lavare l’oro). Quel che di giorno guadagnano se ne va di sera nei postriboli, dove si trovano le altre schiave delle miniere, ragazzine sottratte alle famiglie con la lusinga di un lavoro da cameriere in città. Ed è in città fantasma sorte in mezzo alla foresta – come Manaus, 2 milioni e mezzo di persone, che sbuca dopo l’ansa del fiume con le sue 11 favelas e i suoi irreali grattacieli firmati Nokia, Samsung, Honda e Suzuki – che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, distrutti da fatiche che non sono figlie della loro terra. Il loro difesa si sono levati solo i missionari: tanti ne sono morti.
Ecco perché la Chiesa guarda con preoccupazione all’Amazzonia e vi dedica un sinodo: è la risposta alla richiesta di aiuto che fin dal 2014 si è alzata dalla Rete ecclesiale panamazzonica sorta a difesa di questa vasta e cruciale parte di mondo. L’appello ci riguarda: stiamo tutti perdendo quell’eden e con esso l’equilibrio del pianeta. Anche se il morire tocca ancora agli indios.
(*) direttore “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)