Invasione turca
Il Kurdistan non è solo un’area geografica ma il luogo in cui è maturata un’appartenenza etno-culturale nata dalla fusione fra genti autoctone e tribù indoeuropee. L’offensiva in corso del presidente turco Erdogan nel nord della Siria contro le forze curde ritenute “terroriste”, nega nuovamente sotto gli occhi del mondo e col “benestare” di Washington quel principio all’autodeterminazione dei popoli sancito nel 1945 dalla Carta delle Nazioni Unite
In queste ore la comunità internazionale assiste all’inasprirsi dello scontro militare e politico sulla questione curda, da sempre emergenza diplomatica e umanitaria. Un territorio aspro e montagnoso, collocato fra Turchia, Iraq, Siria, Armenia e Iran, ha plasmato l’identità di questo popolo di ceppo indoeuropeo parlante un idioma iranico.
Il Kurdistan non è solo un’area geografica ma il luogo in cui è maturata un’appartenenza etno-culturale nata dalla fusione fra genti autoctone e tribù indoeuropee, giunte a partire dal III millennio a.C. dal Caspio e dagli altopiani iranico e afghano.
Nel VII secolo d. C. il Kurdistan fu coinvolto nell’espansione arabo-islamica. Ne seguì l’assimilazione religiosa: allo zoroastrismo si sostituì l’Islam (su circa 30 milioni di curdi la maggioranza è sunnita, con una minoranza di circa 3 milioni di sciiti). I turchi selgiuchidi, i mongoli e l’orda di Tamerlano condizionarono lungo il Medioevo lo sviluppo dell’area. Oggetto di perenne contesa, nel 1639 il Kurdistan venne spartito fra gli imperi ottomano e persiano. Nonostante la dominazione straniera, fino all’Ottocento sopravvissero nella porzione ottomana del Kurdistan “principati indipendenti” feudali, dotati di una certa autonomia. Questi potentati locali applicavano la legge islamica ma custodivano una specifica fisionomia culturale. Nel contempo, per le rivalità interne (mai del tutto sopite), fu in parte ostacolata la formazione di una coscienza nazionale compiuta.
Lo stile di vita nomade legato alla transumanza ha fatto sì che tra le tribù ci fossero sia vincoli solidissimi, tuttora immutati, cementati da relazioni umane e dal diritto consuetudinario, sia accese contrapposizioni.
Per questo passato come per la sua narrazione,
i curdi vanno fieri delle loro origini.
La decadenza progressiva dell’Impero ottomano sollecitò una presa di coscienza del loro essere popolo. Nel 1898 al Cairo uscì il primo giornale in curdo, in cui si rivendicavano lingua e istruzione scolastica. Dieci anni dopo nacque a Istanbul un’associazione per il loro progresso. Nel 1910 sorse la prima organizzazione politica: Hiviya Kurd (“Speranza curda”). Ben presto il potere militare turco ne limitò le attività, chiudendo scuole e associazioni. La Prima guerra mondiale non semplificò il quadro: alcune tribù curde combatterono con gli Imperi centrali, altre con l’Intesa. Diventati anch’essi un “popolo senza terra” nell’immaginario dell’epoca, alla conferenza di Parigi (1919) uno dei “Quattordici punti” del presidente americano Wilson parlò in loro favore: “Le nazionalità che vivono attualmente sotto l’Impero turco devono godere una sicurezza certa di esistenza e di potersi sviluppare senza ostacoli; l’autonomia deve essere loro concessa”. L’auspicio fu recepito dal trattato di Sèvres (1920), ma il nuovo ordine internazionale fu ostacolato da interessi, e così Inghilterra e Francia ottennero “mandati”di fatto sovrani sui territori dell’ex impero. La conquista del potere in Turchia da parte di Atatürk e la sigla del trattato di Losanna (1923) infransero il sogno di un Kurdistan indipendente, successivamente smembrato. Inoltre la Società delle Nazioni decise l’annessione della regione di Mosul (con i giacimenti petroliferi di Kirkuk) all’Iraq, allora sotto mandato britannico. Iniziarono così le rivolte, poco meno di un secolo fa. Il secondo dopoguerra, con la venuta meno dell’assetto coloniale, non migliorò la situazione, nonostante l’effimera Repubblica curda di Mahabad (1946) che cadde per l’intervento iraniano. Un capo curdo, Mustafà Barzani, fu ripetutamente alla testa dei rivoltosi per l’autodeterminazione della sua gente e morì in esilio nel 1979, e l’imam Khomeini, nuova guida iraniana, dichiarò la “guerra santa” contro i curdi. Con lo scoppio nel 1980 della guerra fra Iran e Iraq, il Kurdistan diventò campo di battaglia: Baghdad e Teheran sfruttarono la guerriglia curda nei rispettivi territori. Approfittò della situazione anche l’esercito turco, attaccando i curdi iracheni. Nell’agosto 1984 il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) iniziò la lotta armata in Turchia. Nel marzo 1988 ad Halabja 5 mila curdi vennero uccisi dalle armi chimiche di Saddam, la cui caduta non mutò il destino dei curdi iracheni: due milioni passarono in Iran e in Turchia. Il 5 aprile 1991 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu votò una risoluzione, la n. 688, favorevole al popolo curdo contro la repressione irachena. La storia degli ultimi trent’anni ha però disatteso più volte le loro aspettative, nonostante il ruolo avuto nel recente conflitto contro l’Isis: le milizie curde infatti, combattendo sul terreno e arginando in più occasioni l’offensiva del califfato, liberarono nell’estate del 2017 Mosul e nell’autunno riconquistarono Raqqa.
L’offensiva in corso del presidente turco Erdogan nel nord della Siria contro le forze curde ritenute “terroriste”, nega nuovamente sotto gli occhi del mondo e col “benestare” di Washington quel principio all’autodeterminazione dei popoli sancito nel 1945 dalla Carta delle Nazioni Unite.