Politica
Westminster mette in scacco il premier Johnson, costretto a chiedere un rinvio per il recesso dall’Unione europea. Mentre la politica cerca una via d’uscita, abbiamo chiesto il parere di tre cittadini britannici. Ragioni piuttosto convincenti sia per il “leave” che per il “remain”. Emerge però il timore di un nuovo isolazionismo
Le vicende degli ultimi giorni confermano il caos generale nel quale è sprofondata la politica britannica. Il premier Boris Johnson aveva promesso il Brexit per il 31 ottobre, a qualunque costo. Ma la Camera dei Comuni sabato 19 ottobre gli ha tagliato la strada con una inedita maggioranza trasversale che va dai conservatori ai laburisti, dai nordirlandesi agli scozzesi. Si fa avanti l’ipotesi di un nuovo rinvio del “divorzio”, forse al 31 gennaio. Ma… non è detta l’ultima parola. Se ne discute in queste ore sia a Londra – attraversata nel week-end da un’imponente manifestazione contro il Brexit – che nelle sedi istituzionali comunitarie, riunite da oggi a Strasburgo per la plenaria dell’Europarlamento. Il Coreper, riunione dei rappresentanti permanenti dei Paesi membri presso l’Ue, è in stato di allerta a Bruxelles. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha avviato consultazioni con i capi di Stato e di Governo dei Paesi membri. Non si esclude un vertice straordinario questa settimana o, più probabilmente, la prossima.
Ma cosa ne pensano gli inglesi? Il Sir ha sentito tre voci, cittadini al cento per cento britannici. Tre punti di vista differenti sul Brexit. Tre identità che riflettono la Gran Bretagna di oggi. Sullo sfondo resta un’opinione pubblica divisa, così come era accaduto col referendum del giugno 2016, dove i “leave” avevano prevalso sui “remain” per 52 a 48%. Abbiamo sentito Joanna Helcke, già docente universitaria di francese, oggi alla guida di un’azienda di fitness per mamme in attesa; Patrick Webb, professore di ingegneria aziendale all’Università di Loughborough, centro d’Inghilterra; Hillary Doherty, medico condotto. Tutti seguono con attenzione e anche trepidazione quello che succede in questi giorni tra Westminster e Bruxelles. Le loro parole raccontano le differenze tra chi ha nel cuore le stelle della bandiera europea e chi non le ha mai fatte proprie.
“Mi sono sempre sentita europea”. “Il referendum del 2016, con il quale la Gran Bretagna ha deciso di uscire dalla Ue, mi ha privato della mia identità”, comincia Joanna Helcke. “Mi sono sempre sentita una cittadina europea. Nata in Gran Bretagna, mi sono trasferita a Reno, un piccolo paese sul lago Maggiore, in Italia, quando avevo tre mesi perché mio papà, un fisico, lavorava al Centro Euratom di Ispra. Ho frequentato la scuola europea di Varese, dove venivamo formati come la prima generazione veramente europea. Avevamo persino un’ora alla settimana di ‘istruzione europea’”. “A quindici anni sono rientrata in Gran Bretagna per studiare alla St. Margaret’s school, a Bushey, nord di Londra” dove ho incontrato un altro tipo di multinazionalismo. Compagne provenienti da tutto il mondo, Africa occidentale, Medio Oriente, Asia sudorientale”. “Ho sposato un francese e i miei tre figli hanno la doppia nazionalità, ma oggi non posso più dirmi europea e mi sento rattristata e anche amareggiata. Sono anche delusa dal mio Paese, che ho sempre immaginato come accogliente verso gli stranieri. In fondo al mio cuore spero ancora che un secondo referendum sia possibile. Che quella volontà popolare che ha scelto Brexit, possa essere cambiata”.
“Rischiamo di impoverirci”. Cresciuto a Kingston, sud di Londra, a partire dai dodici anni, ma nato a Tripoli e sempre in giro in vari Paesi del mondo, il professor Patrick Webb, a differenza di Joanna, si sente profondamente “British”. Anche per lui, però, il risultato del referendum del 23 giugno 2016 è stato uno shock. “Ho acceso la radio, per sapere il risultato, e mi sono sentito male”, ricorda. “Mi è sempre piaciuto pensare che sono un cittadino europeo e che posso viaggiare liberamente nei vari Paesi della Ue”. “Penso che Brexit ci escluderà dal commercio internazionale e ci impoverirà perché il mondo, oggi, è controllato da potenti blocchi commerciali e, se decidiamo di preferire gli Stati Uniti alla Ue, finiremo per ritrovarci in una posizione subalterna rispetto a Trump”. Secondo Webb – che, grazie al fatto di aver sposato un’italiana, sta prendendo la cittadinanza italiana “per essere sicuro di rimanere nella Ue” – le origini del Brexit stanno nella paura dello straniero, provocata dalle migliaia di migranti che premono alle porte della Ue, “anche se non penso che questo sia un vero problema perché il nostro tasso di disoccupazione non è mai stato cosi basso”.
Comandare a casa nostra. Inglese doc, nata e cresciuta a Newcastle, nel nord d’Inghilterra, Hillary Doherty non ha mai abitato all’estero. Cattolica, lettrice del “Daily Telegraph”, quotidiano Tory che si batte per il Brexit, questo medico condotto esprime tutte le motivazioni di coloro che vogliono andarsene dalla Ue. “L’Unione europea non è un’istituzione democratica”, esordisce, “perché i membri della Commissione, che hanno molta influenza, non sono eletti direttamente dai cittadini europei”. “È importante che il Regno Unito recuperi la sua sovranità nazionale, cosi da poter fare da solo le regole che lo riguardano”, spiega. “Non mi piace che la Ue renda difficile la produzione di alcuni prodotti locali, importanti per la nostra economia, e anche che si stia trasformando in un’unione politica. Quando siamo entrati in Europa”, nel 1973, “l’abbiamo fatto per ragioni puramente economiche, perché era conveniente per noi. Non per far parte di un’unione politica. Sono anche convinta che dobbiamo commerciare con il resto del mondo e che dobbiamo essere in grado di controllare le nostre frontiere, senza privilegiare i cittadini europei e anche limitare il numero di ingressi. Sono per un sistema simile a quello australiano, dove possiamo scegliere chi far entrare sulla base delle sue competenze”. La dottoressa Doherty è convinta che Tony Blair abbia sbagliato, nel 2004, ad aprire le frontiere ai migranti dall’est europeo, che hanno cosi raggiunto la cifra di 700mila. “Molti di loro non erano interessati a lavorare, ma soltanto ad ottenere i sussidi del nostro welfare”.