Dopo il pronunciamento della Cassazione
Sta facendo discutere quanto ha stabilito la Cassazione, ribaltando il verdetto della Corte d’appello: l’organizzazione a delinquere capeggiata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non è stata un’associazione di stampo mafioso ma un’associazione a delinquere “semplice”. Il sociologo, specializzato in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica, parla di corsi e ricorsi storici, perché già per la banda della Magliana la Cassazione fece cadere l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, benché avesse anche sparso sangue a Roma. Adesso, per il “Mondo di mezzo”, dopo lo scenario innovativo tratteggiato dall’ex procuratore Giuseppe Pignatone, “la Cassazione avrebbe dovuto avere il coraggio di emanare una sentenza innovativa”, ma non l’ha fatto
Mafia o non mafia? Questo è il dilemma… Per la Corte di Cassazione “Mondo di mezzo” non è stato mafia: ribaltando il verdetto della Corte d’appello, ha stabilito che l’organizzazione a delinquere capeggiata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non è stata un’associazione di stampo mafioso ma un’associazione a delinquere “semplice”. Pronunciamento che fa discutere, provocando, da un lato, l’esultanza degli avvocati degli imputati, dall’altro, lo sconcerto dei politici, locali e non. L’accusa, mossa dalla procura di Roma, ruotava attorno alla costituzione di una “nuova” mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale.
Di corsi e ricorsi storici parla Maurizio Fiasco, sociologo specializzato in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica: “La banda della Magliana, che è la formazione romana più strutturata e originale nella capitale, non fu qualificata dalla Cassazione come associazione a delinquere di stampo mafioso, anche se il suo modus operandi era quello tipico delle associazioni di stampo mafioso. Aveva una capillare presenza a Roma e provincia, era una rete di bande che si muoveva all’interno di un disegno condiviso, aveva rapporti strutturati con settori deviati degli apparati dello Stato e con l’eversione di destra, aveva sparso sangue a Roma”. “Ora – aggiunge – dopo vent’anni si è riprodotta la stessa situazione, con una costante duplicità di vedute: una statica e una dinamica. La prima, raffigurata dal pronunciamento della Cassazione, la seconda, rappresentata da Giuseppe Pignatone fino alla sentenza della Corte d’appello, che guarda agli scenari evolutivi e individua tutti gli elementi costitutivi della costruzione di un soggetto tipico della criminalità di tipo mafioso”.
Secondo Fiasco, “la Cassazione, con una pronuncia molto conservatrice e non evolutiva, mette in evidenza
un’insufficienza del quadro normativo attuale per descrivere il punto d’approdo a cui è arrivata la mafia contemporanea.
Noi oggi continuiamo a interpretare l’associazionismo mafioso alla luce di alcune storiche nozioni giuridiche, come la forza intimidatrice del vincolo, la struttura dell’associazione, i collegamenti con la politica, lo scopo di occupazione di settori del mondo economico”. Per il sociologo, “sono tutte categorie giuste, ma oggi insufficienti. La criminalità mafiosa moderna infatti è protagonista di reti molto più profonde e di un’integrazione molto più ampia con il settore dell’economia di mercato e con il disfunzionamento delle pubbliche amministrazioni. Oggi la mafia entrerebbe nel novero delle associazioni segrete, dove i confini tra la criminalità negli affari, i poteri occulti della corruzione, strutture massoniche presenti nei gangli vitali dell’economia, della società, dello Stato e le attività criminali sono ormai saltati”.
Fiasco prosegue: “Trovo apparentemente paradossale che la Cassazione confermi che tutti i fatti sono stati provati, che ci fosse un vincolo associativo ferreo e che le responsabilità degli imputati, singolarmente e in concorso, fossero risolte giustamente con le sentenze di primo e secondo grado, senza però inserire tutto questo dentro la cornice di un associazionismo di stampo mafioso”. In realtà, “il tipo di associazionismo mafioso a cui la Cassazione fa riferimento è quello di un’organizzazione presente capillarmente, strutturata su vincoli di sangue, basata su rapporti primari, con una tradizione di generazione in generazione, promanata da una storia di un territorio. Dunque, non ci sono analogie in Mafia Capitale, che, invece, è un associazionismo criminale di tipo nuovo, inquadrabile nello stampo mafioso seppur in una visione evolutiva”.
Il sociologo ammette di avere immaginato l’esito del pronunciamento della Cassazione. Ma avrebbe potuto fare diversamente?
“La Cassazione avrebbe dovuto avere il coraggio di emanare una sentenza innovativa, che avrebbe fatto testo nella storia del diritto penale italiano.
Invece, non ha fatto quel passo in più per far corrispondere allo scenario innovativo tratteggiato da Pignatone un’evoluzione della giurisprudenza”. Oggi non è diminuito l’allarme sociale: “Non è una cosa lieve che un’associazione per delinquere abbia avuto ‘nelle mani’ assessori, abbia fatto patti con imprese, abbia esercitato l’usura e la violenza. Il pronunciamento della Cassazione non cancella tutto questo né offre l’alibi per sottovalutare il pericolo che c’è a Roma e che non si può leggere con le manifestazioni tradizionali della criminalità mafiosa: omicidi e scontri per il controllo del territorio. Oggi in Italia avvengono circa un decimo dei fatti di sangue che negli anni ’90 si attribuivano alla criminalità mafiosa: allora, dovremmo dire che la mafia si è estinta in Italia? Semplicemente ha cambiato modus operandi, perché quella stagione di turbolenza con molti morti e stragi è stata spenta, anche grazie all’azione dello Stato”. Quindi, “oltre alla giurisprudenza, tutti dovremmo avere chiaro il mutamento in atto della mafia, per uno sguardo nuovo necessario per formare chi deve indagare o comunicare correttamente qual è il fenomeno oggi”. In conclusione, “resta la palla al centro, cioè si riapre il dilemma di come interpretare la questione della criminalità a Roma, fuori dagli schemi della retorica. Di certo,
il problema della criminalità c’è ed è anche acuto”.