Politica
In Argentina si assiste al ritorno del peronismo di sinistra, con la vittoria al primo turno di Alberto Fernández, che a scrutinio quasi completato ottiene il 48,1%, contro il 40,4% del presidente uscente, Mauricio Macri, liberale di destra. In Uruguay, invece, bisognerà attendere il ballottaggio per vedere se la sinistra del Frente Amplio, con Daniel Carlos Martínez, riuscirà a confermarsi o dovrà cedere il passo al Partito Nazionale di destra di Luis Alberto Lacalle Pou
Pare oggi abissale la distanza politica, sociale ed economica tra Buenos Aires e Montevideo, le capitali di Argentina e Uruguay, entrambe affacciate, a distanza di 213 chilometri in linea d’aria, sull’enorme estuario del Rio de la Plata. Per uno scherzo del destino, i due Paesi confinanti del Cono Sur sono stati accomunati ieri dalle elezioni presidenziali. Ben diverso il contesto: sull’orlo del default e attraversata da fortissime tensioni sociali l’Argentina, in una situazione di relativa tranquillità economica e solidità democratica l’Uruguay, spesso definito la Svizzera del Sudamerica. Diverso, almeno per il momento, anche l’esito delle elezioni. In Argentina si assiste al ritorno del peronismo di sinistra, con la vittoria al primo turno di Alberto Fernández, che a scrutinio quasi completato ottiene il 48,1%, contro il 40,4% del presidente uscente, Mauricio Macri, liberale di destra. Quest’ultimo ha parzialmente rimontato rispetto alle primarie di agosto, ma il divario era impossibile da colmare, tenendo anche conto che la legge elettorale argentina prevede che la vittoria al primo turno ci sia se un candidato supera il 45% dei voti.
In Uruguay, invece, bisognerà attendere il ballottaggio per vedere se la sinistra del Frente Amplio, con Daniel Carlos Martínez, riuscirà a confermarsi o dovrà cedere il passo al Partito Nazionale di destra di Luis Alberto Lacalle Pou. I dati dello scrutinio parziale fotografano un distacco di dieci punti tra i due contendenti: Martínez è al 38,2%, Lacalle al 28,2. Un vantaggio per nulla rassicurante per il candidato del Frente Amplio, che aveva l’obiettivo minimo di superare il 40%. I due maggiori candidati perdenti, Ernesto Talvi del Partido Colorado (12%) e la novità di questa tornata, il nazionalista Guido Manini Ríos della lista Cabildo Abierto (quasi l’11%), appartengono più naturalmente al fronte di centrodestra.
L’incognita della coabitazione tra Fernández e Cristina. “Per Macri era molto difficile rimontare, nonostante gli sforzi nell’ultimo periodo di campagna elettorale – fa notare al Sir Ignacio Labaqui, analista politico e sociologo dell’Università Cattolica Argentina (Uca) -. Avrebbero dovuto verificarsi troppe circostanze impreviste, tutte insieme. Il presidente uscente ha certamente ereditato una situazione politica ed economica difficile, ma ha sovrastimato se stesso e i suoi provvedimenti”.
Presidente sarà, così, Fernández, che fin da subito dovrà fare i conti con la sua ingombrante vice, cioè l’ex presidente Cristina Kirchner.
L’accoppiata, in campagna elettorale, ha funzionato al di là di ogni previsione. Ma ora i due andranno d’accordo? “Domanda da cento milioni – scherza Labaqui -. Il nuovo presidente è stato capo di gabinetto della Kirchner, ma in alcune occasioni è stato duro con lei”. Un profilo pragmatico, che suscita meno inimicizie, il suo, in un Paese comunque polarizzato, dove “il 30% della gente adora Kirchner, mentre un altro 30% la detesta. La candidatura di Fernández “è stata un’abile mossa della ex presidente”. Il nuovo presidente è un uomo esperto, ha lavorato con 4 ex presidenti peronisti, era la figura giusta per riunificare e dare nuovo smalto alla forza politica che ha plasmato la storia recente dell’Argentina. Secondo Labaqui, ora, “bisognerà stabilizzare l’inflazione e cercare di rinegoziare il debito pubblico, perché serve accesso al credito. Vedremo anche come reagiranno i mercati, che nei mesi scorsi erano andati nel panico dopo la vittoria peronista alle primarie”.
Per quanto riguarda il rapporto con il resto del continente, il politologo afferma che “le crisi che si sono aperte nei confinanti Cile e Bolivia non influiranno sulla vita politica argentina. Piuttosto, è prevedibile una relazione problematica con il Brasile. Fernández ha visitato in carcere l’ex presidente brasiliano Lula”.
In Uruguay regna l’incertezza. Se le elezioni in Argentina apparivano scontate, in Uruguay si confermano le previsioni: l’esito è più incerto. “Tradizionalmente l’Uruguay è un Paese stabile e da anni governa la sinistra – spiega al Sir Adolfo Garcé, politologo dell’Università della Repubblica -.
Stavolta c’è un clima di maggiore incertezza. Ma il nostro non è un Paese in crisi.
Certo, il Frente Amplio governa da molti anni, una flessione è fisiologica. Mettiamoci l’economia che cresce meno di prima, l’aumento di povertà e criminalità… ed ecco che si fa strada la voglia di cambiare. Vediamo cosa succederà al secondo turno, ma è opinione di molti che Martínez, per stare tranquillo, dovesse superare il 45%”. Sicuramente, la situazione della confinante Argentina non ha effetti sul voto. “Piuttosto – spiega Garcé – influisce la situazione politica del Brasile”. Non è un caso che la novità politica sia Manini Ríos, con la lista Cabildo Abierto: “È un ex generale, è stato capo dell’Esercito. Porta avanti una politica nazionalista, chiede la mano dura contro la criminalità. Non lo definirei il Bolsonaro uruguaiano, ma qualche punto di contatto c’è”.
Mons. Arturo Fajardo, presidente della Conferenza episcopale uruguaiana (Ceu) e vescovo di San José de Mayo, spiega al Sir: “In primo luogo, dobbiamo sottolineare l’importanza di poter eleggere i nostri rappresentanti in piena libertà, dentro un sistema democratico solido com’è il nostro. Quella di ieri è stata una giornata esemplare. Certo, ora inizia una nuova campagna elettorale, in un contesto politico più frammentato, con nuovi partiti”. Tra questi, come accennato, la lista di Manini Ríos, che ha suscitato qualche preoccupazione per il suo nazionalismo: “È un ex generale dell’Esercito, la sua proposta trova consenso in alcuni settori della società. Direi che è presto per esprimere giudizi, vediamo come evolve”, aggiunge mons. Fajardo.
Nonostante la Chiesa cattolica in Uruguay sia espressione di una piccola minoranza della popolazione, nel contesto di uno degli Stati più “laici” del mondo, la Ceu ha avuto un ruolo propositivo durante gli ultimi anni e durante la campagna elettorale. Lo conferma il presidente: “A preoccuparci è soprattutto la frammentazione sociale, su questo abbiamo lanciato un allarme nel nostro messaggio dell’aprile 2018. Poi, certo, ci sono altri temi che sono importanti in questa campagna elettorale, come la sicurezza e il lavoro, i temi educativi. Al di là dei partiti politici, vediamo l’importanza di gettare ponti, di unire la società. Devo dire che le nostre proposte sono state ascoltate e ben accolte da tutti i candidati”.