Libia
Non ha avuto l’eco che merita la notizia che il giornalista di Avvenire Nello Scavo è stato posto sotto protezione a seguito delle minacce ricevute non dalla mafia ma da un trafficante libico. Una questione che scotta per le implicazioni politiche, oltre che ideologiche ed economiche. Lo conferma il fatto che non solo l’Italia ma una buona parte di mondo chiude gli occhi su come vengono tenuti i migranti che, da varie rotte africane, arrivano in Libia sognando l’Europa
Non ha avuto l’eco che merita la notizia che il giornalista di Avvenire Nello Scavo è stato posto sotto protezione a seguito delle minacce ricevute non dalla mafia ma da un trafficante libico. Inviato in Libia dove ha realizzato tragici reportage sulle condizioni di detenzione in quelli che – senza più ombra di accettabile dubbio – sono i lager libici, il 4 ottobre, Scavo è stato l’artefice di uno scoop a cui tutti hanno dovuto guardare. Ha infatti provato la presenza di Abd al-Rahman al-Milad, militare e regista del traffico libico di esseri umani, all’incontro di Mineo del 2017, un tavolo di lavoro tra autorità italiane e libiche, finalizzato ad un accordo per bloccare le partenze dei profughi da quel paese al nostro.
La vicenda è l’ennesima prova di quanto la Libia sia una questione spinosa sulla quale da anni si giocano le vite di centinaia di migliaia di persone.
Una questione che scotta per le implicazioni politiche, oltre che ideologiche ed economiche. Lo conferma la vicenda Scavo. Lo conferma il fatto che non solo l’Italia ma una buona parte di mondo chiude gli occhi su come vengono tenuti i migranti che, da varie rotte africane, arrivano in Libia sognando l’Europa.
Condizioni che Scavo e tanti altri giornalisti hanno denunciato e mostrato: l’orrore ha riempito le pagine, è entrato nelle case attraverso le immagini della tv. Anche l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, non ha esitato a definire lager i centri di detenzione libici. Eppure il tempo passa e quei campi restano.
Questa è materia che non piace conoscere: famiglie divise, donne violate, uomini torturati. Ci sono volte in cui la convenienza è più forte della voce della coscienza. E fermare o ridurre il più possibile gli sbarchi è l’indubbia convenienza di questa parte di mondo.
Così in un quasi generale silenzio siamo al 2 novembre, data entro la quale, se nulla accade, l’accordo tra Italia e Libia viene automaticamente riconfermato come recita l’articolo 8 dell’accordo preso a Mineo il 2 febbraio 2017 (governo Gentiloni, ministro dell’Interno Minniti). Vi si legge infatti che sarà “tacitamente rinnovato alla scadenza per un periodo equivalente, salvo notifica per iscritto di una delle due parti contraenti, almeno tre mesi prima della scadenza del periodo di validità”.
Come pure, dalla lettura dell’articolo 7, si apprende che lo stesso poteva “essere modificato a richiesta di una delle Parti, con uno scambio di note, durante il periodo della sua validità”. Ma nessuna delle atrocità svelate ha, nel frattempo, indotto ad agire.
Non c’è tecnologia che garantisca il passaggio della verità: quando non si vuol sapere non si guarda né si ascolta. Siamo tutti Pinocchio pronti a zittire il grillo lanciandogli un martello.
Il nostro governo, tramite il premier Conte, ha fatto sapere che: “L’intesa sarà rivalutata nel merito del prosieguo”. Un indizio al quale, per il momento, non si è in grado di aggiungere dettagli.
L’unica cosa certa è che in questi anni l’Italia ha fornito alla Libia mezzi per pattugliare il mare quanto i confini di terra, oltre a un non precisato quantitativo di fondi. Se nulla interviene a cambiare le cose, il 2 novembre, pur senza inchiostro, una profezia di martiri sarà scritta sull’altare del nostro quieto vivere.
(*) direttore “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)