Incontro in Vaticano
Il presidente della Fondazione che porta il nome del “papà dei mutilatini” spiega come vengono assistiti gli ospiti delle decine di centri di cura presenti lungo la penisola. Un’attenzione specifica alla persona ammalata, così pure alla famiglia, agli operatori, ai volontari. Ruolo essenziale della ricerca applicata alle terapie. Giovedì 31 ottobre 6mila pellegrini a Roma. “Mi auguro che dall’incontro con Francesco possiamo portare a casa, dentro di noi e in ogni luogo ove opera la Fondazione, una nuova speranza nell’uomo e in Dio, una rinnovata certezza che il bene è attrattivo e generativo”
I numeri sono imponenti, ma soprattutto si respirano gioia e una grande attesa per l’incontro di giovedì 31 ottobre, in Vaticano, tra i quasi 6mila pellegrini della “Don Gnocchi” con Papa Francesco. C’è un filo rosso che lega, lungo la storia, la Fondazione che porta il nome del “papà dei mutilatini” con i pontefici, un reciproco legame di affetto e gratitudine. Ancora si ricorda la visita di Bergoglio al centro di Roma, nell’aprile 2014, per la messa del Giovedì santo e la commovente lavanda dei piedi del Papa ai pazienti. Questa volta è la Fondazione che “va a trovare” il Santo Padre, mobilitando 200 pazienti dei vari centri sparsi in nove regioni della penisola, 1.100 dipendenti e collaboratori, 260 volontari, 150 alpini (rimasti sempre legati alla figura del loro cappellano in Russia), quasi 4mila familiari, ex allievi, benefattori, rappresentanti delle istituzioni, sacerdoti, religiose… “È la grande famiglia della Don Gnocchi che si ritrova con Francesco, maestro e amico, per rinnovare nel nome di don Carlo quello stesso spirito di fede che aleggiava sul sagrato del duomo di Milano quella mattina di ottobre di dieci anni fa, giorno della beatificazione del nostro fondatore”, spiega don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione. Tra i pellegrini vi saranno anche il direttore generale Francesco Converti, il direttore scientifico Maria Chiara Carrozza, il presidente onorario mons. Angelo Bazzari.
La Fondazione, creata dalla passione umana ed evangelica del prete ambrosiano, in oltre sessant’anni di attività si è costantemente ampliata e, dalla cura dei ragazzi rimasti mutilati o gravemente feriti durante e dopo la guerra, ora segue ragazzi con gravi disabilità, pazienti di ogni età che necessitano di riabilitazione (neuromotoria, cardiologica, oncologica), persone con sclerosi multipla, oppure affette da Alzheimer o Parkinson, anziani non autosufficienti, pazienti con gravi cerebrolesioni, malati terminali. Tutto questo in 27 Centri residenziali con oltre 3.700 posti letto e una trentina di ambulatori, con quasi 6mila operatori e una media di oltre 9mila assistiti al giorno.
Presidente, la Fondazione ha una lunga storia di cura, di solidarietà di professionalità. Ed è un segno della presenza cristiana accanto a chi soffre. Quali linee di sviluppo intravvede per il futuro?
Direi che sono due gli orientamenti che ritengo importanti e che cerchiamo di interpretare al meglio in questi anni. Il primo è quello di procedere in maniera determinata per valorizzare la ricerca scientifica e consentire che le nuove tecnologie e le procedure possano essere messe a servizio di coloro che sperimentano la sofferenza e la fragilità. Da questo punto di vista, l’innovazione tecnologica cui stiamo assistendo ci vede tra coloro che sono protagonisti, approfittando di una condizione del tutto speciale rispetto ad altri centri di ricerca: noi abbiamo due strutture riconosciute istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), uno a Milano e l’altro a Firenze, che si qualificano proprio per questa opportunità. È la ricerca traslazionale, che punta ad applicare i risultati raggiunti già nel trattamento terapeutico. A volte svolgiamo ricerche multicentriche, ovvero possiamo utilizzare le nostre strutture sparse in Italia con a disposizione una casistica molto ampia, la quale permette di validare in maniera più efficace i risultati della ricerca stessa. Lo abbiamo fatto di recente, ad esempio, per misurare l’efficacia della riabilitazione con strumentazioni robotiche rispetto alle tecnologie tradizionali.
Quale ruolo riveste l’innovazione tecnologica in medicina e in particolare nella riabilitazione?
Recentemente abbiamo presentato al centro Irccs di Firenze un esoscheletro realizzato in Giappone capace di interpretare le intenzioni di movimento della persona che lo indossa, attraverso sensori non invasivi, applicati sulla pelle a livello dei muscoli estensori e flessori delle anche e delle ginocchia e che vorremmo sperimentare nei nostri Centri, in particolare per la riabilitazione degli arti inferiori di pazienti neurologici con esiti di ictus. È una specie di armatura indossata da persone che hanno difficoltà di deambulazione o sono impossibilitate a camminare. Lo stesso dicasi per il filone di ricerca cui stiamo partecipando sulla cosiddetta mano bionica insieme ad altri istituti italiani: macchine che sostituiscono arti e che vengono direttamente connesse al sistema nervoso. La mano è una delle parti più complesse, e ovviamente necessarie, per l’uomo: agire in questa direzione significa procedere verso quel concetto di “restaurazione umana” di cui parlava don Carlo e che vuol dire mettere una persona nelle condizioni di essere autonoma con l’obiettivo di un suo reinserimento sociale. Ma non mancano la ricerca genetica e quella di carattere clinico e farmacologico, magari per diagnosticare in anticipo una malattia grave, come ad esempio la Sla, rallentandone – anche con l’ausilio dell’attività riabilitativa – il percorso. Siamo inoltre impegnati, attraverso un’attenta gestione interna sul piano economico, organizzativo e dell’efficientamento, a migliorare ogni nostra attività, con una cura speciale per le risorse umane. Qui mi si lasci spendere una parola di ringraziamento per tutto il nostro personale, oltre che ai volontari: un immenso valore aggiunto per la Don Gnocchi!
La condivisione della sofferenza è il primo atto terapeutico, diceva don Gnocchi. Vale anche oggi, con un sistema sociosanitario articolato, con nuove sfide provenienti ad esempio dall’invecchiamento della popolazione, nuovi orizzonti che si dischiudono grazie alle moderne tecnologie?
Don Carlo ha insegnato che curare vuol dire sostanzialmente accompagnare una persona. Il malato non va mai trattato “solo” come paziente; occorre riconoscerne la singolarità, predisponendo per ciascuno un piano di trattamento individualizzato. E una vicinanza, specifica e speciale, per ogni ragazzo, adulto o anziano che sia. Occorre sempre dimostrare prossimità, atteggiamento che rispetta la persona e la rende protagonista del percorso terapeutico. Oggi poi il concetto di cura si è giustamente ampliato: dobbiamo prenderci cura degli ospiti ma anche del personale, dei volontari. E dei familiari, perché quando qualcuno si ammala, tutta la famiglia è coinvolta. Per questo cerchiamo di fornire sostegno morale e spirituale a chi assiste il proprio caro. L’esperienza umana della malattia, sempre faticosa, resta aperta a ciò che don Carlo si domandava in un suo famoso scritto, il “perché del dolore innocente”. Dolore che certamente va contrastato, ma al contempo rappresenta un’occasione straordinaria di solidarietà e di crescita umana.
Cosa si aspetta dall’incontro con il Papa?
Credo che di questi tempi una delle cose che mancano di più sia una fede a sostegno della speranza. Perché quando si perde per strada la speranza si rischia di lasciare sole le persone, specialmente quelle in condizione di fragilità. Ecco, mi auguro che dall’incontro con Papa Francesco possiamo portare a casa, dentro di noi, e in ogni luogo ove opera la nostra Fondazione, una nuova speranza nell’uomo e in Dio, una rinnovata certezza che il bene è attrattivo e generativo. Mi auguro che il Papa ci incoraggi e ci dia la forza di andare avanti, con determinazione, nonostante le difficoltà che s’incontrano sul cammino. Un cammino di bene e di santità, segnato dalle orme di don Carlo Gnocchi.