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Co-autore del libro “Un calcio al razzismo. 20 lezioni contro l’odio”, il giornalista Adam Smulevich commenta i fenomeni di odio e discriminazione sempre più frequenti sugli spalti non solo della Serie A ma anche delle categorie giovanili. E lancia un appello ai calciatori: “Hanno capacità di incidere e fare opinione nel mondo del calcio e non solo, il loro ruolo diventa assolutamente fondamentale. È arrivato il momento che queste personalità vengano fuori”
“È abbastanza evidente che c’è un deterioramento e un imbarbarimento generale nella società e questo nello stadio si amplifica. Ma attenzione, non è un fenomeno che si limita ai 90 minuti di gioco. A chi dice che lo stadio sia uno sfogatoio, dice una bugia. In realtà lo stadio è un laboratorio di odio che poi finisce per dilagare nella società”. Diretto, chiaro, soprattutto preoccupato. Adam Smulevich è un giornalista e ha da poco ha scritto insieme a Massimiliano Castellani il libro “Un calcio al razzismo” in cui conduce il lettore lungo “20 lezioni contro l’odio”. Un libro importante alla luce dei fenomeni di razzismo che da tempo hanno colpito giocatori di colore della Serie A, da Mario Balotelli, vittima domenica scorsa di insulti e buu razzisti a Verona, al nuovo attaccante dell’Inter Lukaku, al viola Dalbert. Un libro che è rivolto soprattutto ai giovani e poi a quegli adulti che hanno smesso di allenare la “memoria”. “Noi pensiamo – ci racconta Adam – che il motivo di base è la mancanza di consapevolezza della storia del nostro Paese, delle ferite ancora aperte, dei problemi rimasti irrisolti”.
Il fatto di trovarsi sugli spalti con altra gente, può incoraggiare le persone ad dare voce all’odio? Quanto influisce il fattore “branco”?
Sicuramente ci sono anche dinamiche di questo tipo. Sta di fatto che le curve oggi e in diversi casi sono ostaggio di gruppi orientati in un certo modo che si tirano dietro il loro codazzo di follower. E questo senz’altro è indice di un arretramento culturale preoccupante, un segno di ignoranza, la prova di un “analfabetismo funzionale” che in Italia è in crescita e che nello stadio trova la sua rappresentazione più classica.
Al caso della partita Verona-Brescia, è di questi giorni la notizia di un piccolo giocatore dell’Aurora Desio (in provincia di Milano), di colore, che si è sentito insultare da una mamma dagli spalti. Il fenomeno è molto più pervasivo di quello che pensiamo?
Certo. Nasce dal basso, nasce dal calcio giovanile, nasce dalla scarsa responsabilità verso un certo tipo di approccio. E tutto questo non è nuovo. Magari fa meno notizia ma problemi di questo tipo nel calcio giovanile esistono ed esistono da molti anni. È da sottolineare però – e questo secondo me è importante – la reazione forte della squadra che da sabato prossimo ha annunciato che farà scendere i propri calciatori con la faccia dipinta di nero.Trovo essenziale che ci siano reazioni positive a fatti di discriminazione e odio. Lo stesso vale per gli episodi di discriminazione territoriale che abbiamo visto nei giorni scorsi nel calcio italiano, nella partita Roma-Napoli che è stato teatro del così chiamato razzismo territoriale. Anche in quel caso, abbiamo visto il capitano della Roma Edin Djeko agire per primo contro questi insulti e spingere i tifosi a muoversi nella stessa direzione.
Quanto è importante il ruolo dei giocatori, soprattutto di serie A?
È importante che sempre più calciatori prendano consapevolezza che questo non è più un tema che può essere messo in un angolo ma è uno dei temi centrali. Proprio perché hanno capacità di incidere e fare opinione nel mondo del calcio e non solo, il loro ruolo diventa assolutamente fondamentale.
Ti vengono in mente degli esempi?
Mi viene in mente Lilian Thuram, calciatore degli anni ‘90-2000 che per primo si è battuto una vita contro il razzismo. Più recente è il caso di Kalidou Koulibaly calciatore del Napoli, vittima anche lui due anni fa di un fenomeno di razzismo. È diventato un po’ il simbolo di un certo tipo di insulti ma anche simbolo di reazione. È andato anche nelle scuole, si è confrontato con i ragazzi. Koulibaly si è mosso con molta efficacia e lo ha potuto fare perché non è soltanto un campione sul campo ma un uomo molto intelligente, molto consapevole. Ha capito che quello che ha vissuto, non lo soccombeva ma gli consegnava un messaggio molto importante da trasmettere. Spesso i giocatori passano per superficiali. Invece ci sono personalità notevoli. È arrivato il momento che queste personalità vengano fuori.
In Inghilterra hanno alzato il costo del biglietto degli stadi per contrastare il fenomeno. Ma è sufficiente?
Noi pensiamo che ci debbano essere due strade. Da un lato la repressione deve essere reale e nel segno di quella tolleranza zero che è un po’ il modello da esportare dall’Inghilterra, Paese che è stato attraversato negli scorsi decenni da fenomeni di violenza terribili che hanno provocato anche morti. L’Inghilterra per il fenomeno hooligans è stato estromesso dal calcio europeo per molti anni. C’è stata una reazione forte e questa reazione ha pagato. Ma la repressione da sola, come è noto, non basta. Deve andare insieme all’accrescimento della consapevolezza, che passa attraverso la formazione a partire dalle scuole calcio. Noi diciamo che è il momento che i calciatori insieme alle società scendano in campo, ci mettano la faccia, non lascino Kalidou Koulibaly e Džeko da soli ma che con loro ci siano i capitani di tutte le squadre.
Non basta tirare fuori ogni tanto qualche slogan. Non basta calare dall’alto parole. È un messaggio un po’ vuoto dire solo “no al razzismo”. Occorre un impegno intenso, studiato e diffuso.
Quello che forse ha colpito di più del caso Balotelli, sono state le parole di “giustificazione” usate dal capo degli ultras del Verona. “Balotelli è italiano perché ha la cittadinanza italiana, ma non potrà mai essere del tutto italiano”. Cosa pensi?
C’è un grosso problema. Quando si iniziano ad usare le congiunzioni avversative, “sì, è grave ma”…è indice di non consapevolezza. No, qui non ci possono essere congiunzioni né vie di mezzo. Si condanna fermamente, punto e basta. Poi certamente nessuno identifica Verona come la città del male. Si dice semplicemente che esiste un problema reale nelle tifoserie. Non si può far finta che non è vero e negarlo non fa onore alle società di calcio. I problemi si affrontano, non si negano. E si affrontano non da soli: il calcio deve fare rete. Nessuno deve permettersi di mettere all’indice una società, una squadra, perché la situazione è complessa. Ma non si rende un servizio se ci si mette in un atteggiamento di difesa.