Guerra in Siria
Il rientro in Italia di Alvin, ritrovato nel campo profughi di Al Hol, dopo che sua madre lo aveva rapito per portarlo in Siria dove si era recata per combattere a fianco dell’Isis, rimette al centro dell’attenzione il tema dei figli e delle famiglie dei foreign fighters. Quale futuro, quale recupero? Il commento dell’esperto di terrorismo e radicalismo, Claudio Bertolotti, e l’esperienza portata avanti ad Aleppo dai francescani a favore proprio dei ‘figli e delle mogli dell’Isis’.
Arriverà domani in Italia per riunirsi con la sua famiglia, Alvin, il bambino albanese che sua madre aveva rapito quando aveva 6 anni, per portarlo da Barzago, Lecco, in Siria, per abbracciare la causa dello Stato islamico. La madre è stata uccisa durante i combattimenti morta e il piccolo è stato ritrovato nel campo profughi di Al Hol grazie allo sforzo congiunto della Mezzaluna Rossa siriana, la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa Mezzaluna Rossa (Ifrc) e diverse autorità. Secondo l’Unicef sarebbero 28 mila i bambini di altre nazionalità bloccati nel Nord-Est della Siria, la maggior parte nei campi per sfollati. Principalmente provengono dall’Iraq, da dove arrivano 20mila minori. L’80% del totale ha meno di 12 anni e il 50% meno di cinque. La vicenda di Alvin ripropone il tema del recupero e del reinserimento nelle rispettive società dei bambini e delle vedove dei foreign fighters europei a partire dai minori non accompagnati che non hanno responsabilità per i crimini commessi dai genitori.
“Alvin è solo un primo caso e non sarà certo l’ultimo” commenta al Sir Claudio Bertolotti, esperto di terrorismo e radicalismo, direttore Start Insight, organismo che si occupa di temi geopolitici, tra i promotori di Osservatorio React, l’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo.
“In Siria e in Iraq questi minori non sono riconosciuti, non hanno un’identità, sono figli di nessuno e potenzialmente rischiano di restare figli dello Stato Islamico che non è morto e continua a muoversi efficacemente sul piani della comunicazione anche dentro i campi di prigionia”.
“Sono bambini – aggiunge l’esperto – che dai tre a sei anni hanno vissuto in un contesto estremamente violento, con la violenza imposta da Isis come modello educativo. Lecito chiedersi chi potrebbe gestire il recupero di questi soggetti tenuto conto che non esistono nei vari Paesi europei – se non in maniera del tutto scoordinata – programmi di recupero anche per adulti. Fino ad ora non si è potuto certificare che un singolo soggetto sia stato deradicalizzato e non più pericoloso. Lo stesso dubbio vale per i minori: quanto di quello che hanno assorbito rimarrà radicato e che effetti potrà avere nella loro crescita?”.
Un nome e un futuro. Una domanda cui cercano di dare risposta Binan Kayyali, psicologa e psicoterapeuta, ed Elia Kajmini, regista e autore teatrale, musulmana lei e cristiano lui, i due coordinatori del progetto “Un nome e un futuro”, voluto dal vicario apostolico latino di Aleppo, mons. George Abou Khazen, dal padre francescano Firas Lutfi e dal Muftì di Aleppo, Mahmoud Akam. L’obiettivo? “Aiutare innanzitutto i bambini nati da donne vittime di stupri e abusi spesso perpetrati dai ribelli jihadisti, molti dei quali stranieri, durante l’assedio di Aleppo”. “Si tratta di bambini e ragazzi guardati con diffidenza, tacciati di essere figli dell’Isis o figli del peccato, e per questo abbandonati dalle proprie famiglie. Così anche le loro madri. Discriminati ed emarginati hanno bisogno di tutto, acqua, medicine, istruzione, supporto psicologico e soprattutto di un nome e di un futuro”. Un nome e un futuro, come recita lo slogan del progetto.
Sono due i Care center dei francescani che fanno capo al progetto. I numeri sono di tutto rispetto: circa 500 persone seguite, 200 disabili e 300 ragazze madri. Un lavoro continuo, sette giorni su sette, per oltre otto ore al giorno, condotto da 15 operatori specializzati. Numeri che crescono man mano che nei due centri affluiscono “tanti orfani ‘invisibili’ trovati a vagabondare per i palazzi distrutti di Aleppo.
“I cosiddetti figli dell’Isis – dicono Binan e Elia – non sono nemmeno iscritti all’anagrafe. Praticamente ‘non esistono’. In gran parte si tratta di bambini e ragazzi molto aggressivi, poco propensi a relazionarsi con gli altri. Per questo motivo puntiamo alla socializzazione e all’inserimento scolastico grazie alla collaborazione con il ministero dell’Istruzione siriano”.
Stare in una classe, oggi in Siria, “vuol dire avere un nome, studiare rende possibile un futuro”.
Recuperare tutti questi bambini con le loro madri diventa fondamentale per smantellare il fanatismo religioso perché, affermano dalla ong “Un Ponte per”, attiva nel nordest della Siria,
“la vera battaglia contro lo Stato islamico e l’estremismo jihadista deve essere combattuta con gli strumenti della cultura”,
“della trasmissione di valori rispettosi dei diritti umani ed in particolare di quelli delle donne. La politica europea è fortemente in ritardo su questo, perché ha volutamente ignorato il tema nonostante i reiterati solleciti delle autorità civili e militari del Nord-Est della Siria”. L’obiettivo della comunità internazionale deve essere “una reintegrazione sicura dei bambini siriani nelle loro comunità locali e il rimpatrio sicuro, dignitoso e volontario dei bambini stranieri nei loro Paesi d’origine”.