Sicurezza
Dopo gli attacchi a Londra, L’Aja e Parigi torna l’incubo terrorismo in Europa. Dal 2014 a oggi sono 119 le azioni, portate a termine in Europa, da 159 attentatori (dei quali 57 sono deceduti) e che hanno provocato la morte di 390 persone e il ferimento di altre 2359. Intervista a Claudio Bertolotti, direttore esecutivo React e di Start InSight (Strategic Analysts and Research Team)
“Difesa e Sicurezza: prevenire il radicalismo per contrastare il terrorismo”: è il titolo del convegno che si è svolto questa mattina a Torino, presso la sede del Consiglio della Regione Piemonte, per iniziativa di “ReaCT – Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo”, con il patrocinio dal Ministero della Difesa e dalla Regione Piemonte. L’evento giunge a pochissimi giorni di distanza dal venerdì nero (29 novembre) del terrorismo che ha fatto registrare tre attacchi rispettivamente a Londra, L’Aja e Parigi. Tre i morti nella capitale inglese, tra cui l’aggressore, il 28enne Usman Khan, cittadino britannico di origini pakistane, già condannato per terrorismo nel 2012 e in libertà vigilata dal 2018, con il braccialetto elettronico. L’attentato londinese è stato rivendicato dall’Isis, attraverso la sua agenzia di propaganda “Amaq”.
In Italia, come emerso dopo una riunione (30 novembre) straordinaria del “Casa”, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, l’attenzione resta “massima” sull’intero territorio anche per l’approssimarsi delle festività natalizie. Del rischio attentati e del diffondersi del radicalismo islamico anche nel nostro Paese abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, Direttore esecutivo React e di Start InSight (Strategic Analysts and Research Team – www.startinsight.eu), società di ricerca geopolitica, in particolare dell’area mediterranea, del mondo arabo e islamico, dei conflitti, delle politiche europee in materia di sicurezza, dei contesti della radicalizzazione e del terrorismo.
Attentati in Europa. Secondo dati forniti da Start, presentati da Bertolotti questa mattina a Torino, sono “119 le azioni, portate a termine in Europa dal 2014 a oggi da 159 attentatori (dei quali 57 sono deceduti) e che hanno provocato la morte di 390 persone e il ferimento di altre 2359: ultimi attacchi il 29 novembre. Soltanto 11 del totale sono attacchi terroristici ad alta intensità (con un numero di vittime superiore a 20); gli altri sono eventi a media intensità con un numero di vittime compreso tra 3 e 20 (il 36% del totale) e a bassa intensità, meno di due vittime (il 56%, circa 6 su 10)”.
“Gli anni di maggior espansione territoriale e mediatica dello Stato islamico sono stati quelli in cui vi sono i principali attacchi terroristici in Europa: 2016-2017 e 2018. Nel 2017 si concentrano gli attacchi che percentualmente hanno maggior successo (4 su 10 provocano almeno una morte)”. Guardando all’intero periodo, il 24% “sono attacchi fallimentari (nessuna vittima, solo feriti o nulla)”; il 34% ottengono “successo tattico” (almeno una vittima); il 18% ottengono “successo strategico (blocco traffico aereo, mobilitazione delle Forze armate, coinvolgimento opinione pubblica a livello internazionale).
In Italia il fenomeno della radicalizzazione è marginale
rispetto al livello di pericolosità di altri Paesi europei, come Francia, Regno Unito e Germania – spiega l’esperto, relatore al convegno di Torino –. Nel nostro Paese, infatti, non sono presenti quelle fasce di seconda e terza generazione che sono il grosso dei soggetti che hanno aderito al modello dello Stato Islamico decidendo anche di andare in Siria o di restare a combattere nei rispettivi paesi. L’Italia ha il vantaggio di avere una popolazione musulmana molto ridotta, per quanto in crescita, di prima generazione e solo in parte di seconda, che sta entrando adesso nella fase adolescenziale, quella di passaggio verso la fase adulta, la più critica perché è quella in cui si manifesta un modello di opposizione anche violento. L’adolescente è a un bivio: da un lato la rottura, anche violenta, con la società nella quale non ci si riconosce, e dall’altro l’integrazione e l’adeguamento al modello sociale”.
È possibile tracciare un identikit della persona a rischio radicalizzazione?
Il soggetto tipo a rischio radicalizzazione o che aderisce al modello violento dello Stato islamico non è molto diverso, per esempio, dai soggetti adolescenti nazionali – non immigrati o figli di immigrati – che aderiscono a modelli di violenza di estrema destra, estrema sinistra o anarco-insurrezionale.
I ragazzi musulmani hanno un’opzione in più rispetto a quella laica, quella religiosa che non è sconfitta dalla storia. Mentre fascismo, comunismo, anarchismo sono stati sconfitti dalla storia che li ha ampiamente studiati, non si può dire la stessa cosa per l’islamismo militante che sfocia nel jihadismo.
Questo ha spinto molti soggetti a rinunciare alla propria identità o percorso di vita addirittura spingendo anche persone non musulmane ad aderire allo Stato islamico come è successo per alcune ragazze europee partite per la Siria per donarsi in sposa ai miliziani.
Al di là del fenomeno della radicalizzazione, che peso ha il rischio ‘emulazione’ in questi attentati?
Eventi che abbiamo definito ad alta intensità, con un maggiore numero di vittime, possono indubbiamente spingere soggetti autonomi ad atti emulativi. Questo coinvolgimento di soggetti autonomi avviene anche attraverso lo stimolo emotivo alimentato dall’attenzione mediatica e dalla narrativa utilizzata dai gruppi terroristi attraverso i social.
Il fenomeno del terrorismo in Europa, sul piano potenziale, continua ad essere una grandissima sfida su cui è necessario agire con crescente impegno sul piano della prevenzione.
In Italia come si sta lavorando per prevenire il fenomeno della radicalizzazione?
Va ribadito che
l’ideologia jihadista alimenta il fenomeno della radicalizzazione. È quindi sull’ideologia che devono essere concentrati tutti gli sforzi
per contenere o sconfiggere le manifestazioni violente. In Italia i grandi risultati che stiamo ottenendo sono, purtroppo, solo il risultato dello sforzo e dell’impegno di singoli operatori e di direttori di strutture carcerarie molto in gamba. Il carcere è uno dei luoghi privilegiati per la radicalizzazione ideologica o religiosa. Non sono però sostenuti da una legge che definisca il loro lavoro. Esiste un progetto di legge “Dambruoso-Manciulli per la prevenzione del radicalismo e contrasto al terrorismo” già approvato dalla precedente legislatura – al quale ora stanno lavorando i deputati Alberto Pagani e Luigi Iovino – ma non in calendario per la votazione, che andrebbe a coinvolgere tutti quegli attori come docenti, polizie e servizi sociali che sono gli occhi del territorio e i primi recettori di quel fenomeno di violenza e di simpatia nei confronti dello Jihadismo.