Intervista

Folena: “Per pensare servono le parole”. Cultura e dialogo oltre l’eclissi del senso critico

Firma di “Avvenire”, scrittore, Umberto Folena dà alle stampe un libro che aiuta a riflettere, a partire dal vocabolario, sulle attuali dinamiche comunicative e culturali. “Il cristianesimo – afferma l’autore – si salva se dà meno spazio ai predicatori e più spazio ai testimoni”

foto SIR/Marco Calvarese

Il titolo attira l’occhio: “Parolacce e paroline”. Il nuovo libro di Umberto Folena, fresco di stampa, raccoglie la prima annata della omonima rubrica apparsa sul quotidiano “Avvenire” tra il 2018 e il 2019. È una riflessione, divertita e divertente, accurata, interrogativa, sul nostro modo di comunicare oggi – nell’epoca dello smartphone – a partire proprio dall’utilizzo e dalla valorizzazione, o meno, delle parole. Il volume è acquistabile dal sito delle Edizioni della Goccia, www.edizionidellagoccia.it/parolacce (13 euro, invio senza spese).

Partiamo dall’inizio. Nella Presentazione al suo volume Fabio Colagrande scrive che l’elzevirista è un articolista “cui è permesso discettare un po’ su tutto con garbata ironia”. Umberto Folena si definirebbe un elzevirista?
Magara! A Roma “magara” è un “magari” davanti a una prospettiva meravigliosa. Lo squadernò un giorno l’allenatore Carletto Mazzone, correva l’anno 1978, prima di un Catanzaro-Juventus. Un giornalista gli fece: “Siete forti quest’anno, potreste anche vincere”, e lui: “magara”. Per i non calciomani, va spiegato che Mazzone allenava il Catanzaro, non la Juventus. Ecco, adesso sto discettando… Il problema, non da poco, è che oggi gli elzeviri non si scrivono più. È pura, favolosa archeologia. L’elzeviro come divertita divagazione, un andare felicemente a zonzo tra fatti e idee seguendo l’estro, tra giochi di parole e spunti brillanti senza mai prendersi troppo sul serio… alla fine il lettore si ritrova con un sorriso sulle labbra e qualche piccola idea in più nella zucca.

Voglia di libertà, ricerca della verità, irriverenza, atteggiamento pedagogico… Quale il mix nel suo scrivere?
Un cocktail, a leggere gli ingredienti, e specialmente se sono tanti, può sembrare un pasticcio imbevibile. Poi lo assaggi e ti avventuri in armonie impensabili. Magari, anzi: magara sapessi scrivere sempre così. E riuscissi nel mio intento: trattando temi apparentemente molto diversi, tenere la rotta fissa verso un obiettivo ben preciso.

Quale?
Se le persone e la società sono un iceberg, provo a esplorarne la parte sommersa. In effetti mi considero un immergente, in tutti i sensi.

Folena, perché – come lei scrive – chi parla male pensa male?
Per pensare servono le parole. Più parole conosci, parole belle, intelligenti, brillanti, più saprai formulare pensieri a loro volta belli, intelligenti, brillanti.

Proviamo pure a pensare senza usare le parole: impossibile.

Se però possiedo poche parole, e pure banali e sgangherate, penserò e parlerò in modo banale e sgangherato. Finendo tuttavia per essere apprezzato da chi è come me e si riconosce nelle mie parole.

Nel suo libro le parole vengono collocate in “categorie”. Ce ne sono per pensare, ferire, guarire, stupire, sorridere. Quali parole ama di più?
Senza dubbio quelle per sorridere. Sono le più rare e difficili. E le meno apprezzate. L’umorismo è segno infallibile di intelligenza e, come tale, un formidabile strumento di conoscenza. Bello sarebbe riuscire sempre, scrivendo e parlando, far sorridere e pensare al tempo stesso.

Una curiosità: perché si scaglia contro il termine “assolutamente”?
Non è vero che mi scaglio. Diciamo che accarezzo contropelo… “Assolutamente sì” e “assolutamente no” è un rafforzativo inutile, fastidioso come l’abuso di “un attimino”. Da professionista della parola, una delle mie regole è togliere, togliere tutto quello che è possibile e bene togliere. Asciugare.

“Assolutamente” è una parolaccia di sei sillabe. Un obbrobrio.

“Sì” e “no” sono deliziosi monosillabi che non vanno strangolati con avverbi mostruosi.

In Italia si registra una diffusa incapacità dei più giovani di comprendere ciò che leggono. E poi c’è un analfabetismo di ritorno tra gli adulti. C’è, al fondo, un deficit di cultura nel nostro Paese?
C’è mancanza di abilità critica. L’azione ha oscurato il pensiero, come cantava Giorgio Gaber 25 anni fa: “E pensare che c’era il pensiero / che riempiva anche nostro malgrado le teste un po’ vuote. / Ora inerti e assopiti aspettiamo un qualsiasi futuro”. Gaber, sulle note di Va’ pensiero, denunciava “la gran pigrizia delle mente” di un uomo che “non ha più il gusto del mistero, non ha passione per il vero, non ha coscienza del suo stato”. Dovremmo tutti avere questa missione: riscoprire, insieme, il gusto del mistero, la passione per il vero e la coscienza di chi siamo. Ma ci mancano le parole, ne abbiamo troppo poche.

Un’ultima questione: parole, Parola (con la maiuscola)… Il cristianesimo ha ancora parole per il nostro tempo?
Sì. Paroline contro parolacce. Soprattutto quelle parole che diventano fatti e testimonianze.

I cristiani parlano con le loro azioni, sono queste che la gente “ascolta” volentieri.

Spesso cerchiamo le parole giuste, che ci gratifichino, e poi compiamo le azioni sbagliate, che non sappiamo riconoscere come tali. Il cristianesimo si salva se dà meno spazio ai predicatori e più spazio ai testimoni.