Società
L’elezione di Marta Cartabia alla guida della Consulta è, secondo la sociologa, “un segnale molto bello per tutti”. “Questa carica, di grande responsabilità, è reale. Chissà che non diventino possibili anche altri cambiamenti finora estranei al nostro orizzonte, ma ormai irrinunciabili”, osserva. E ancora: “Il fatto che ci siano donne come Marta nelle istituzioni fa ben sperare che sugli orari di lavoro, la possibilità di svolgere alcune attività da casa, i nidi aziendali o il sostegno economico per le mamme, il riconoscimento del lavoro di cura dei padri e molto altro si potranno fare dei passi sempre più necessari, se vogliamo uscire da un inverno demografico che non è che la conseguenza di un individualismo estremo, alimentato dal tecnocapitalismo”
Marta Cartabia è la prima donna presidente della Corte Costituzionale. Un suo commento a caldo è stato: “Si è rotto un tetto di cristallo”. Su come la sua elezione sia un segno di un cambiamento culturale e sociale riflettiamo con la sociologa Chiara Giaccardi, che è anche amica della nuova presidente della Consulta.
L’elezione di Cartabia è un segnale importante?
Ricordo che Marta ci aveva raccontato che quando era diventata giudice della Corte Costituzionale era l’unica donna, con 25 anni in meno del più giovane degli altri giudici. Già questa era una bella rottura di cristalli! La sua nomina a presidente, da un lato, ratifica un suo percorso personale, dove evidentemente si è fatta stimare per la sua capacità di equilibrio, la sua saggezza e la sua umanità, oltre che la indiscutibile competenza; dall’altro, è un segnale molto bello per tutti.
Un esempio che deve ispirare fiducia e incoraggiare cambiamento.
Kant diceva che ciò che è reale è possibile. Questa carica, di grande responsabilità, è reale. Chissà che non diventino possibili anche altri cambiamenti finora estranei al nostro orizzonte, ma ormai irrinunciabili.
In Italia le donne trovano ancora ostacoli per raggiungere posizioni di vertice?
Credo proprio di sì, anche se ci sono eccezioni. E in ogni caso credo che il problema non sia il vertice in quanto tale, come luogo di visibilità, privilegio e potere, bensì ù
la possibilità di contribuire al bene comune in maniera significativa, portando una prospettiva che manca.
Certamente è questo che ha ispirato Marta Cartabia nel suo percorso professionale. Ricordo che parlando dei suoi inizi da universitaria non nascondeva la fatica di studiare materie di esame vissute in molti casi come noiose e aride; ma il senso fortissimo della giustizia dal quale si sentiva animata l’ha sostenuta nello studio fin da allora e l’ha guidata fin qui, al servizio di tutti. Si chiama desiderio: ciò che spostando fuori di noi il baricentro ci consente di realizzare qualcosa di bello, per altri.
Le difficoltà nel conciliare famiglia e lavoro pesano sempre di più per la donna?
Pesano se si mantiene una rigidità di schemi e di ruoli. I ruoli, ovvero la condivisione del lavoro domestico e della cura, dipendono da noi. Se si fa, insieme, ciò che serve, ci si aiuta camminando insieme, cercando di essere interscambiabili e di sostenersi quando uno dei due è più impegnato; e questo rinsalda anche il legame. Per gli schemi il compito è più arduo e più a lungo termine, ma il fatto che ci siano donne come Marta nelle istituzioni fa ben sperare che sugli orari di lavoro, la possibilità di svolgere alcune attività da casa, i nidi aziendali o il sostegno economico per le mamme, il riconoscimento del lavoro di cura dei padri e molto altro si potranno fare dei passi sempre più necessari, se vogliamo uscire da un inverno demografico che non è che la conseguenza di un individualismo estremo, alimentato dal tecnocapitalismo. Una via di sterilità mortifera.
Quanto è cambiato il ruolo della donna nel nostro Paese?
È cambiato, ma a volte si ha l’impressione che ci sia un ritorno all’indietro, mascherato da progresso. Penso alla questione del “neutro” (che è il neutro della macchina) o alla spinta fortissima per sostituire il “generare” con il “fabbricare”: da una parte, l’apertura alla vita che ci feconda, ci attraversa, ci trasforma e va oltre di noi, rendendoci parte di un tutto che ci sostiene e ci solleva (dove il codice materno, da sempre e in tutte le culture, è unico, insostituibile, sacro) e, dall’altra, la messa in produzione di bambini come oggetti, dove tutto diventa materia disponibile e scartabile e dove l’altro non è che estensione dell’io, proiezione dei suoi bisogni di sicurezza. E dove la donna, finché non si riesce a sostituirla con un utero artificiale, è puro contenitore, mezzo. Da un destino che per secoli sembrava scritto nel corpo e nella cultura, quello delle donne come “fattrici”, cui ci si è ribellati in nome di un maggior rispetto della libertà femminile e della molteplicità delle vie in cui la femminilità e anche la maternità si possono esprimere, ora si torna a parlare, con il linguaggio della libertà come autodeterminazione e maggior numero possibile di opzioni a disposizione, di maternità surrogata, di utero in affitto o, con un uso strumentalmente ideologico del linguaggio del dono, di “gestazione per altri”. Peccato che ci sono (poche) donne che possono ordinare e far produrre figli come specchi dei loro desideri e donne (la maggior parte) che possono solo “affittare” una parte di sé, farsi recludere per i mesi della gravidanza rinunciando alla propria vita, affetti, interessi, a ciò che piace loro fare per non “contaminare” il bambino… Tanti passi indietro per la donna in questa e in altre nuove forme di schiavitù, spacciate per progresso sulla via della libertà. Ma cos’è la libertà? Certo non questo.
Quali sono le peculiarità e la ricchezza che una donna porta nei diversi ambiti lavorativi e sociali?
Ci sarebbe molto da dire, ma cito solo due aspetti: uno più di metodo e uno più di contenuto. Il metodo, la via, è la “reciprocità”, che è molto più della complementarietà: maschio e femmina non sono tessere di un puzzle che cancella le differenze in un quadro di insieme, ma alterità in relazione che proprio in questa tensione insopprimibile possono generare qualcosa di nuovo, che è molto più della somma delle parti. Non è atteggiandosi a maschio, o cancellando la propria femminilità in nome di un neutro che dovrebbe essere più rispettoso, perciò, che le donne potranno portare un contributo più incisivo. Un contributo che definirei come “concretezza”, nel senso in cui usava il termine Romano Guardini, ovvero come orientamento alla totalità, all’intero. Non è solo la maggiore attitudine (a volte imposta dalle circostanze) al multitasking, che è solo il livello più superficiale. È una capacità di tenere insieme dimensioni diverse, che il senso comune vorrebbe incompatibili, trovando forme inedite di ricomposizione a beneficio di tutti. Ma credo che il compito impossibile e reale di tenere insieme aspetti apparentemente disparati sia possibile solo se si lascia aperta una finestra verso il cielo. Come nel gioco in cui si riescono a unire con una sola linea tutti i puntini separati solo se si esce dal perimetro, se si passa dall’alto. Dentro la concretezza c’è la dimensione spirituale, senza la quale nulla sta insieme.
In una società competitiva come la nostra c’è il rischio che non sia sufficientemente valorizzata la specificità della donna?
Il rischio c’è naturalmente e il cammino iniziato non va interrotto, cedendo alla pressione di un tecnoliberismo che ci rende fungibili e scartabili.
Durante il tradizionale scambio di auguri con i rappresentanti delle istituzioni e delle forze politiche al Quirinale il presidente Mattarella ha recentemente riconosciuto che la presenza delle donne ai vertici delle istituzioni e nei ruoli di responsabilità “è uno straordinario fattore di crescita e equilibrio” e che si stanno compiendo passi avanti, anche se il traguardo è ancora lontano. Ma grazie anche a Marta oggi è un po’ più vicino!
C’è ancora l’idea che alcuni ruoli siano più adatti alle donne e altri agli uomini o è una visione superata?
Samantha Cristoforetti nello spazio ha aiutato a infrangere un altro tetto di cristallo in questo senso. Non ci sono solo ruoli, ci sono persone che sempre eccedono il ruolo e rinnovano le forme sociali, alimentando un cambiamento che apre l’avvenire al di là delle catene di cause-effetto e della ripetizione del già dato. Sulla capacità di mettere al mondo ciò che ancora non esisteva, che è il nome della libertà secondo Hannah Arendt, le donne hanno qualcosa di irrinunciabile da trasmettere.