Cinema
Sul grande schermo non va in scena l’esplorazione del mondo dell’handicap, non c’è analisi o approfondimento. Poco importa la vita precedente del protagonista: quel che conta, sopra ogni cosa, è il tempo presente. L’oggi vissuto nel senso più vero, con le possibilità e i mezzi che si hanno a disposizione. Così la disabilità non è vista come oggetto d’indagine ma come condizione di vita, pari a quella di qualsiasi altro personaggio, e non si avverte la necessità di dover spiegare questioni irrilevanti per l’economia di una storia che si spinge oltre le apparenze
Più che una pellicola di genere, Avatar è un’esperienza visiva. Sul fantastico pianeta di Pandora, ideato e realizzato da James Cameron in 15 anni di gestazione creativa, la forza delle immagini dirompe in una storia di scelte e sentimenti. Nel puntare sulla grandezza espressiva del cinema tridimensionale, “Avatar” sacrifica la complessità della trama a vantaggio di una sceneggiatura che trova nella citazione e nella narrazione diacronica la dimensione più vera.
Dalla spiritualità panica alla condanna delle guerre di conquista, dal potere della tecnologia al trionfo della natura: Cameron racconta un mondo alla rovescia in cui l’alieno e il diverso sono dentro di noi, si mescolano e si scambiano fino a confondersi. Ed è proprio un diverso il protagonista di “Avatar”: diverso dagli uomini del suo mondo, perché vive su una sedia a rotelle; diverso dagli abitanti di Pandora, popolo extraterrestre dalla pelle azzurra e dal fisico imponente; diverso da se stesso, con quella doppia vita che il destino gli ha riservato.
Per la prima volta, il cinema di Hollywood affida ad una persona disabile il ruolo di protagonista in un blockbuster internazionale. Non mancano, nella storia del cinema, esempi di pellicole più o meno riuscite sul tema della disabilità fisica: quasi sempre reduci, che sia della Seconda guerra mondiale (“Il mio corpo ti appartiene”, 1950) o del Vietnam (“Nato il quattro luglio”, 1989) poco cambia; talvolta artisti (“Il mio piede sinistro”, 1989) o meccanici di nave inchiodati in un letto (“Mare dentro”, 2004). A differenza di questi lungometraggi, accomunati dall’esigenza di mostrare le difficoltà di una realtà scarsamente conosciuta, “Avatar” non è un film sulla disabilità ma un film con la disabilità.
Sul grande schermo non va in scena l’esplorazione del mondo dell’handicap, non c’è analisi o approfondimento. Poco importa la vita precedente del protagonista: quel che conta, sopra ogni cosa, è il tempo presente. L’oggi vissuto nel senso più vero, con le possibilità e i mezzi che si hanno a disposizione.
Così la disabilità non è vista come oggetto d’indagine ma come condizione di vita, pari a quella di qualsiasi altro personaggio, e non si avverte la necessità di dover spiegare questioni irrilevanti per l’economia di una storia che si spinge oltre le apparenze.
Nel gioco degli opposti, Cameron trova la quadratura del cerchio e dirige una pellicola che integra la figura della persona disabile attraverso un processo di “normalizzazione”. Con “Avatar”, allora, si definisce un paradigma difficilmente riscontrabile nel panorama cinematografico e dei mass media in genere, poco interessati a fornire una comunicazione attenta e responsabile sul tema. Le parole, ricorda lo scrittore Karl Kraus, sono “la madre del pensiero”. E pensare alla disabilità con le parole corrette è il primo passo per favorire una reale comprensione e integrazione del fenomeno. Non più “disabile”, dunque, ma “persona disabile” perché la sostanza dell’umanità comune resta identica anche se cambiano le qualità esteriori. È per questo che “Avatar” segna una strada ancora inesplorata, abbandonando il cliché del cinema di genere e lasciando che siano le immagini a parlare più che le persone. Attraverso la ricchezza della sceneggiatura e la laboriosità della computer graphic, che nell’abbondanza delle forme e nella saturazione della scena raggiunge la cifra della semplicità stilistica, la storia è ridotta all’essenziale. Ogni personaggio, quand’anche caricaturale e stereotipizzato, trova la giusta collocazione e partecipa alla composizione di un quadro narrativo che offre indicazioni e suggestioni ma delega allo spettatore il compito di interpretare. Così della disabilità non si fa più racconto ma esperienza di vita. E nel lontano mondo di Pandora, dove ciascuno è alieno ma nessuno è diverso, ogni uomo può ritrovarsi a casa.