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La "guerra santa"” “” “

Se c’è una guerra veramente santa da condurre, è la lotta per la dignità, nel nome della fraternità universale

Se c’è una guerra veramente santa da condurre, è la lotta per la dignità, nel nome della fraternità universale “Non è un conflitto tra Oussama Ben Laden e gli Stati Uniti, ma tra l’Islam e l’Occidente!”. Si chiama Muhammad, è un afgano di 25 anni, incontrato questo lunedì 8 ottobre 2001 all’uscita di un negozio di Peshawar, in Pakistan, dall’inviato speciale de “La Croix”. Da buon musulmano, Muhammad è pronto a ripartire per il suo paese in caso di un’invasione americana, per “fare la jihad”, la guerra santa. Lo stesso giorno, il primo ministro britannico dichiarava ai 40 milioni di telespettatori arabi della catena Al-Jazira che “questa guerra contro il terrorismo non è una guerra contro l’Islam”.
Tony Blair contro Muhammad, George Bush contro Ben Laden, crociata contro jihad: come qualificare questo conflitto? Tutti i commentatori, da un mese a questa parte, hanno fatto ricorso alla teoria di Samuel Huntington sullo “scontro tra civiltà” che è destinato a caratterizzare, secondo il professore di Harvard, l’evoluzione dei rapporti internazionali in questo inizio di secolo. Alcuni gli riconoscono una virtù visionaria: Muhammad finirebbe per avere ragione e Tony Blair torto. Altri gli negano ogni competenza e temono che una visione così manicheista non faccia che generare altra violenza.
Non sarebbe forse più saggio rifiutare entrambi questi cliché? È ingiusto racchiudere l’Islam in una visione univoca, che vincolerebbe in senso ontologico questa religione ai fanatismi che ne fanno il proprio punto di forza. È altrettanto stupido ridurre l’intero Occidente ad una logica espansionista neoliberista, e più ancora vedervi il sigillo del cristianesimo. Allo stesso modo, non c’è alcuna pertinenza nel ricondurre il tutto ad un preteso “scontro tra civiltà”, né – sul versante opposto – nel negare ogni dimensione ideologica nel conflitto in corso. Occorre rinunciare agli slogan riduttivi, da una parte e dall’altra, così come al gioco troppo facile che consiste nel contrapporli.
Come allora descrivere i tempi che viviamo? Sobbarcandoci l’ingrato compito di riflettere sulla loro complessità facendo attenzione alle sfumature. Prendiamo tre dimensioni caratteristiche.
– La mondializzazione. Si situa al cuore della crisi attuale. È per reagire contro l’espansionismo occidentale e la globalizzazione degli scambi (di cui gli Stati Uniti sono i maestri e il World Trade Center era il simbolo) che sono stati scatenati gli attentati dell’11 settembre. Ora, questa logica è lontana dal creare un consenso unanime in Occidente: le manifestazioni sempre più violente in occasione dei grandi vertici internazionali (ci viene alla mente Genova) ne sono una lampante dimostrazione, fino all’assurdo della provocazione così come della repressione.
–La qualifica del conflitto. Sia George Bush che Oussama Ben Laden vi vedono una lotta del “bene” contro il “male”, dando per scontato che ognuno di essi si dichiara difensore, leggi detentore, del primo e si sente quindi investito della missione di sradicare il secondo. Una simile prospettiva cade inevitabilmente nella trappola della logica bellica; i due protagonisti non hanno potuto evitarla, parlando chiaramente di “crociata” il primo e di “jihad” il secondo. Anche in questo caso, occorre tenersi alla larga da cliché dotati di un potenziale omicida così forte.
–La posta in gioco di questo conflitto. Dal momento che c’è una crisi, occorre superarla. Ma occorre anche mantenersi lucidi e ragionevoli, rinunciare ad approfittare di uno scontro ideologico per acquisire vantaggi politici ed economici. Il limite da non oltrepassare risulta nettamente tracciato in un caso simile: si tratta dell’interesse delle persone e dei popoli più poveri. Contrariamente a quanto recita un altro cliché ampiamente sfruttato, il conflitto attuale non è neanche una guerra dei poveri contro i ricchi. Tuttavia, la più bella vittoria che i partigiani della libertà potrebbero riportare consiste nell’imparare finalmente a condividere le loro ricchezze con i diseredati.
Soltanto in questo modo il mondo uscirà dalle maglie di questa crisi che gli ha già fatto vivere ore di grande orrore. Non c’è nessuno scontro di civiltà. Piuttosto, l’insieme del nostro mondo cosiddetto civilizzato deve restare sensibile allo choc che, un certo 11 settembre, lo ha sconvolto. Rinunciando a credersi i padroni del mondo e, a maggior ragione, a mettere Dio al servizio di questa perniciosa pretesa. Assegnando un posto più giusto a tutti gli esseri umani, qualunque sia il loro orizzonte e la loro religione, che continuano a non avere un posto alla nostra tavola. Se c’è una guerra veramente santa da condurre, è la lotta per questa dignità, nel nome della fraternità universale di tutti i figli di Dio.
Michel Kubler
redattore capo del quotidiano “la Croix” (Parigi)