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Euroscettici a Est ” “” “

In Polonia, Cechia, Slovacchia e Ungheria crescono i timori dei ” “cittadini riguardo all’Europa, nonostante i governi puntino tutto sull’ingresso nell’Unione” “” “

Nel mese di febbraio il sondaggio effettuato dall’istituto di statistica “Polibarometer” di Lubiana ha rivelato che i cittadini favorevoli all’ingresso del loro Paese nell’Unione Europea sono meno della metà. Per l’esattezza, solo il 48,6% degli elettori voterebbe sì al referendum e coloro che ritengono utile l’adesione sono ancora meno: appena il 43,8%. Rispetto al mese di gennaio si è registrato un crollo di oltre 12 punti percentuali. È la prima volta che gli “euroentusiasti” finiscono in minoranza dal 1991, cioè da quando la vicina Repubblica scelse la strada dell’indipendenza al motto di “Europa adesso”. Anche la Slovenia si è, dunque, allineata a tutti gli stati dell’Est candidati a diventare per primi membri effettivi dell’Ue.
Anche in Polonia, Cechia, Slovacchia ed Ungheria, infatti, le indagini demoscopiche rilevano da tempo una maggioranza di “euroscettici”, ampia e crescente di mese in mese. E questo nonostante i governi puntino tutte le loro fortune sull’ingresso nel club di Bruxelles. C’è il rischio concreto, allora, che l’allargamento dell’Unione ad Est venga clamorosamente bocciato nei referendum dalle stesse popolazioni interessate. Perché questo brusco cambiamento di rotta nell’opinione pubblica dopo oltre un decennio di lotte e sacrifici per adeguare i sistemi di quei Paesi agli standard comunitari? In primo luogo, man mano che si chiudono le trattative sui vari capitoli dell’adesione, cresce il timore di essere considerati come europei di serie B, con gli stessi doveri degli occidentali ma con diritti affievoliti. Ad esempio, molti non capiscono perché posticipare la libera circolazione dei lavoratori, per cui i cittadini sloveni, ungheresi, slovacchi, cechi e polacchi sarebbero trattati da “extracomunitari” per ben 7 anni dopo l’ingresso dei loro paesi nell’Ue. Da subito, però, dovranno adeguarsi alla politica agricola comunitaria con notevoli contraccolpi sulle economie. E non spariranno nemmeno i confini, perché ci vorranno altri anni di trattative per l’adesione alla cosiddetta “area Schengen”.
Infine, incide il timore di venire governati da una burocrazia che lasci poco spazio ai politici eletti dal popolo. In definitiva, a Est l’allargamento dell’Unione europea viene sempre più percepito come una sorta di colonizzazione economica, sociale e culturale. Non come la costruzione di nuove stanze della casa comune, bensì un’invasione. Allora – è la convinzione che si fa sempre più strada nelle opinioni pubbliche – il gioco non vale la candela ed è meglio lasciare le cose come stanno. È la fine di un sogno? I popoli dell’Est, dopo aver combattuto per la libertà e per fare parte a pieno titolo dell’Europa, ora se ne autoescluderanno? I due grandi polmoni del vecchio continente, quello latino e quello slavo, non potranno respirare all’unisono?
Anche il Papa, il paladino dell’Europa unita dall’Atlantico agli Urali è preoccupato della situazione di stallo che si sta verificando. Lo testimonia il discorso rivolto nei giorni scorsi ai partecipanti del terzo forum internazionale promosso dalla fondazione “Alcide De Gasperi”. Vi ha rimarcato, infatti, l’importanza dell’apporto “dei popoli slavi alla cultura del continente” ed ha chiesto ai responsabili dell’Ue di assecondare il desiderio di adesione dei paesi centro-orientali “mostrando comprensione nella fase iniziale per quanto concerne l’adeguamento alle condizioni economiche previste”.
La posta in gioco è troppo alta per essere vanificata da interessi di natura economica o politica. Ben più importanti sono le dimensioni culturale e spirituale, affinché l’Europa, come ha affermato Giovanni Paolo II, “conservi e faccia fruttificare la sua eredità cristiana” che “l’ha resa grande nel passato e ancor oggi la impone all’ammirazione degli altri popoli”. È un monito di cui tenere conto in Occidente e in Oriente.