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Gli accordi raggiunti dalla conferenza di Bonn non bastano per arginare lo scontro in atto, che rischia di estendersi ad altri Paesi, paventa padre Michele Simone” “” “
Dopo otto giorni di lavori, la conferenza di Bonn ha raggiunto l’accordo sul futuro dell’Afghanistan, nella notte tra il 3 e il 4 dicembre. L’accordo prevede la creazione di un’amministrazione provvisoria, che fa capo ad un esecutivo composto da 29 membri per una durata di sei mesi. Nel testo dell’accordo si legge anche che i partecipanti alla Conferenza “chiedono al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di prendere in considerazione al più presto il dispiegamento di una forza sotto mandato delle Nazioni Unite in Afghanistan. Tale forza parteciperà al mantenimento della sicurezza a Kabul e nei suoi dintorni”. E mentre a Bonn si arrivava ad un accordo, nei territori della Terra Santa si è infiammato il conflitto tra israeliani e palestinesi. E’ di pochi giorni fa l’allarme lanciato dal periodico dei gesuiti “La Civiltà Cattolica”: se il conflitto in Afghanistan dovesse durare a lungo, scriveva il vicedirettore, padre Michele Simone , c’è il rischio “niente affatto improbabile, di estendere la guerra ad altri Paesi”. Lo abbiamo intervistato.
Dunque avevate ragione. Il conflitto si sta estendendo…
“Quello che sta succedendo in Medio Oriente ribadisce la necessità che la comunità internazionale in tutte le sue componenti a cominciare dalle Nazioni Unite, dagli Stati Uniti e dall’Europa eserciti tutte le pressioni possibili per fermare questa corsa alla guerra che aggiunge solo sofferenze alle popolazioni interessate e rischia di provocare un allargamento del conflitto”.
Un allargamento verso quali Paesi?
“Verso qualche possibile Paese arabo, con il pericolo di scatenare una reazione a catena e di colpire altre popolazioni inermi”.
A chi spetta prendere per primo l’iniziativa di dire basta alla violenza?
“Spetta soprattutto a chi ritiene che con le armi si possa risolvere il problema. Proprio questo ultimo anno ha dimostrato che il ricorso continuo alle armi non solo non risolve il problema, ma lo aggrava”.
Dal punto di vista diplomatico, quale via d’uscita si potrebbe intraprendere?
“Si potrebbero attuare pressioni diplomatiche di tipo economico. Perché l’Autorità nazionale palestinese ha bisogno degli aiuti dei Paesi arabi e dell’Europa ma anche Israele come si sa è uno dei Paesi proporzionalmente più indebitati del mondo per le continue spese militari, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti”.
In un tale contesto, quanto è importante l’accordo di Bonn?
“Si potrà dire una parola definitiva solo quando l’accordo sarà messo in pratica. Come sappiamo le varie componenti tribali presenti in Afghanistan sono – al di là delle proclamazioni – le une contro le altre armate. Da questo punto di vista, mi sembra limitante la scarsa almeno iniziale entità della forza internazionale di pacificazione. Si prevede infatti che questa forza intervenga a Kabul e potrà essere progressivamente estesa ad altre regioni del Paese, se necessario. Credo invece che sia necessario un dispiegamento più ampio, altrimenti l’accordo non potrà raggiungere il suo scopo che è quello di difendere la gente e di dare al Paese un governo all’altezza del compito. Questa forza dovrà anche aiutare a far giungere gli aiuti delle organizzazioni internazionali. Sappiamo infatti che attualmente le lotte fra le fazioni afghane non permettono ai convogli umanitari di entrare nel Paese. E la gente è allo stremo. Ma per realizzare tutto questo ci vorrà molto tempo “.
Quale ruolo può svolgere l’Europa?
“Per quanto riguarda il conflitto tra Israele e i palestinesi, l’Europa tutto sommato sta facendo il suo compito. Invece si è dimostrata divisa anche se adesso si sta ricomponendo riguardo alla presenza in Afghanistan. La politica estera europea e quella militare sono ancora da costruire”.
Chiara Biagioni