Un coordinamento
delle Caritas di tutto
il mondo per l’aiuto ai profughi afghani.
Ce ne parla
Roberto Rambaldi
Dopo i primi attacchi degli Stati Uniti all’Afghanistan, affiancati da aerei che lanciano cibo, coperte e farmaci alle popolazioni civili, Roberto Rambaldi, vicedirettore della Caritas italiana e responsabile dell’area internazionale, giudica quei lanci un “effetto-spettacolo”, prendendo le distanze da una “eccessiva esibizione degli interventi umanitari”. Con Rambaldi abbiamo parlato delle modalità di intervento e coordinamento tra le Caritas dei diversi Paesi. La Caritas italiana opera infatti all’interno della rete internazionale che si è ora mossa in aiuto dei profughi afghani (oltre un milione e mezzo di nuovi profughi, ma la cifra aumenta di ora in ora) e ha già realizzato un primo intervento di emergenza di circa 30 miliardi di lire, fornendo ascolto e vicinanza, ma anche cibo, tende, stufe, servizi igienico-sanitari e per l’approvvigionamento dell’acqua a oltre 180.000 persone nei campi profughi in Pakistan.
Come si muovono le Caritas dei diversi Paesi per organizzare gli interventi di solidarietà ai profughi?
“La prassi è coordinare tutti gli interventi di emergenza a livello Caritas internationalis e Caritas Europa. Attualmente abbiamo un team di cinque persone che collabora con Caritas Pakistan, molto attiva e impegnata nonostante le risorse ridotte. Da loro riceviamo quotidianamente degli aggiornamenti. In Iran la Caritas italiana invierà questa settimana un team di tre persone. Ci si coordina a livello internazionale ad un tavolo di confronto ed elaborazione in cui le risorse, sia finanziarie sia di esperienze e competenze, vengono messe in comune per costruire un piano globale di azione. Così si trova lo specifico di ciascuno, per decidere di operare in un settore piuttosto che in un altro. Ad esempio, come Caritas italiana, il nostro specifico non è tanto tecnico-operativo e di logistica quanto più di attenzione alla persona. Oppure una sola Caritas, a nome di tutti, va ad interloquire con le ambasciate e le nunziature per avere i permessi e i visti. A livello europeo c’è un tavolo di coordinamento per ogni continente in cui si opera. Ma in questo tipo di interventi si evita di fare doppioni perché c’è già una grossa mobilitazione a livello internazionale”.
Quali sono, nella situazione dei profughi afgani, le difficoltà di intervento di tipo politico, logistico e culturale?
“La distanza, la difficoltà di reperire risorse in loco o in zone limitrofe e per i permessi di accesso: in Iran, ad esempio, non è facile entrare senza alcune attenzioni che rallentano l’operatività. Ufficialmente tutto ciò che si fa è a nome del governo. Inoltre non si vuole essere legati ad una agenzia umanitaria. Dal punto di vista politico siamo sempre sul filo del rasoio perché buona parte delle nostre realtà appartengono a quegli stessi Paesi che stanno bombardando. Cerchiamo di aiutare e di stare accanto ai i profughi che sono vittime due volte: del regime da cui scappano e delle bombe che piovono dal cielo, come è successo in Iraq e in Serbia”.
Oltre alle bombe gli americani lanciano cibo, farmaci e coperte alle popolazioni civili…
“Ci sono mille punti di domanda su una operazione di questo genere, che non condividiamo. Era già stata sperimentata in altre crisi, ad esempio in Sudan, con pochi risultati effettivi. Quei lanci ci sembrano molto un effetto-spettacolo. L’intervento umanitario va fatto il più possibile con serietà e rispetto delle persone che andiamo ad accostare, senza il rischio di cadere nella spettacolarizzazione. La solidarietà si può fare anche con costi minori e in forme meno eclatanti. Noi abbiamo sempre preso le distanze dalla eccessiva esibizione degli interventi umanitari”.
Patrizia Caiffa