Sfollati e profughi
macedoni hanno
raggiunto quasi quota centomila, eppure quasi nessuno ne parla.
La testimoniana
dai campi
di accoglienza
Sono circa 60 mila i profughi macedoni in Kosovo e circa 35.000 gli sfollati interni alla Macedonia, spesso irraggiungibili dalle organizzazioni umanitarie e privi di assistenza alimentare, igienica e medica. Sono accolti da migliaia di famiglie albanesi del Kosovo, o nei centri messi a disposizione dalle organizzazioni. La Caritas italiana opera con le due sedi aperte dal ’99 a Skopje e a Ferizaj, affiancando Caritas Kosovo. A Ferizaj gli operatori Caritas registrano gli arrivi su mandato dell’Acnur (l’Alto commissariato per i profughi delle Nazioni Unite), gestiscono un ambulatorio medico gratuito, dirigono un magazzino di stoccaggio degli aiuti, coordinano la distribuzione di generi di prima necessità. Ecco una testimonianza da Skopje, capitale della Macedonia.
“Non abbiamo vittime da piangere, ma delle nostre case chissà cosa ne è stato. Al villaggio vogliono tornare solo i vecchi, che non hanno altro luogo dove andare. Le relazioni con gli albanesi erano di buon vicinato, prima della guerra in Kosovo. Poi sono comparsi i primi segni di tensione, e in futuro sarà difficile vivere insieme. Ma il presente non è migliore: qui al campo, riusciamo solo ad annoiarci”. Traspare sconforto da queste parole di un anziano insegnante oggi in pensione, ospite dello studentato Zdravko Cvetkoski, che nel centro di Skopje accoglie 360 sfollati. È uno dei tanti, affollati collective center, campi profughi che hanno il pregio di offrire a quanti non sono stati accolti, dentro e fuori i confini del Paese, da famiglie di parenti o conoscenti – un tetto sulla testa.
La struttura si preparava al consueto maquillage estivo, a metà giugno, quando i monolocali appena lasciati liberi dagli studenti si sono riempiti di famiglie di etnia macedone in fuga da Aracinovo. Nelle piccole stanze, tre metri per tre, si vive in quattro, fingendo una parvenza di quotidianità. Un educatore dello studentato, riconvertito in direttore del campo, spiega che il cibo, il materiale igienico, i medicinali e i controlli sanitari per ora sono sufficienti. E che in molti si stanno attivando per gli sfollati. Dei volontari fanno giocare i ragazzi. I carcerati della prigione cittadina inviano gli ortaggi che coltivano nell’ora d’aria.
È solo un flash sulla nuova emorragia umana che colpisce i Balcani sud-occidentali. Più blanda, meno spettacolare di quella del ’99, meriterebbe comunque maggiore considerazione. Ma questa volta non c’è una guerra umanitaria da portare a compimento, e si può tollerare che decine di migliaia di innocenti paghino il conto di un quadro politico, interno e internazionale, caratterizzato da tavoli di trattativa sinora tanto affollati quanto inconcludenti. Gli sfollati hanno percorso, in genere, poche decine di chilometri. Provengono quasi tutti da villaggi di montagna che attorniano Tetovo e Kumanovo, rispettivamente a nord-ovest e a nord-est di Skopje. Molti arrivano anche da Aracinovo, un centro a non più di dieci chilometri dalla capitale. Sono concentrati soprattutto nelle città, 18 mila a Skopje, 10 mila a Kumanovo. Appartengono ad entrambe le etnie: macedoni o albanesi, sono costretti ad andarsene, o decidono di farlo, quando i combattimenti si fanno troppo vicini all’uscio di casa. La gran parte dei loro villaggi è oggi controllata dai ribelli albanesi dell’Uck (Esercito di liberazione nazionale) e bombardata o tenuta nel mirino dalle forze armate e dalla polizia macedoni.
Erano 14 mila all’inizio di giugno. Oggi, un mese dopo, sono già più che raddoppiati. Il dato fornito dalla Croce Rossa macedone, lunedì 2 luglio, parla di 34.546 sfollati interni: tecnicamente, Internal displaced persons (Idp’s), persone fuggite entro i confini del paese. Due anni fa, per i profughi albanesi in fuga dal Kosovo si mobilitarono battaglioni di giornalisti provenienti dai quattro angoli del pianeta: è vero che oggi i numeri sono diversi e che per fortuna il conflitto è molto meno cruento, ma è altrettanto vero che la situazione di instabilità che dalla fine di febbraio affligge la Macedonia ha ormai costretto più di centomila persone ad abbandonare le proprie case. Profughi all’estero, dispersi interni, civili interposti – ostaggi, cuscinetti, scudi umani – tra le fazioni in conflitto: la Macedonia, nel suo piccolo, fa di tutto per riproporre il variegato, triste campionario di sradicamento che ha caratterizzato tutte le altre repubbliche ex jugoslave nel corso di un decennio di guerre.
Paolo Brivio