” “” “Part-time, contratti a termine, in crescita ” “l’occupazione femminile, in calo quella maschile: pregi e difetti del mercato del lavoro inglese. I vescovi ne denunciano le distorsioni
Con un tasso di disoccupazione del 5,1% e il numero di disoccupati diminuito di 5.000 unità, il Regno Unito sembra godere di una situazione privilegiata. Ma il mercato del lavoro, riformato dagli anni della Thatcher sul modello statunitense, ha caratteristiche molto diverse da quelle degli altri mercati europei. Moltissimo part-time, molti contratti a termine, in crescita l’occupazione femminile, in calo quella maschile. Alcuni analisti sostengono che le cifre che il governo laburista fornisce periodicamente sul calo della disoccupazione mascherano una diminuzione continua dell’impiego a tempo pieno maschile. Certo il mercato del lavoro inglese, costruito attorno al settore dei servizi e finanziario, con grave penalizzazione delle industrie manifatturiere, punisce la vecchia “working class”, le classi lavoratrici una volta impiegate nelle industrie. Soprattutto nelle zone del nord la disoccupazione colpisce duramente. Le riforme Thatcher, fatte proprie dal partito laburista, hanno favorito le classi medie. La potente rete del “welfare system”, che comprende sussidi di disoccupazione, case popolari e aiuti di diverso tipo per chi è senza lavoro, ha aiutato ad alimentare una sacca di disoccupati che è molto difficile reinserire in un impiego.
I richiami dei vescovi. La Conferenza episcopale inglese a più riprese ha invitato a non considerare fisiologica la presenza di una larga fascia di disoccupati che rappresenta invece un grave problema per la società. Nell’ottobre del 1996 un documento intitolato “The Common Good and the Catholic Church’s Social Teaching” (“Il bene comune e l’insegnamento sociale della Chiesa cattolica”), redatto dall’episcopato cattolico, ha denunciato la politica laburista, già della Thatcher, volta a mantenere basso il livello delle tasse sul reddito delle classi medie. I vescovi hanno anche paventato il rischio di alimentare nei disoccupati una mentalità di dipendenza dai sussidi che limita il loro spirito di iniziativa. La stessa denuncia è stata ripetuta nel documento “Unemployment and the Future of Work”, “La disoccupazione e il futuro del lavoro”, pubblicato nell’aprile del 1997 dal “Council of Churches for Britain and Ireland”, l’organismo ecumenico che riunisce le Chiese cristiane di Gran Bretagna e Irlanda. Questo documento, che i vescovi cattolici hanno accolto e fatto proprio, chiede a chiare lettere alcune riforme del mercato del lavoro che aiutino i disoccupati. Anche i vescovi scozzesi, sempre alla vigilia delle elezioni del 1997, avevano rifiutato un approccio che considera la disoccupazione come un problema già risolto. Facendo proprie le parole dell’enciclica “Laborem Exercens”, i vescovi scozzesi definiscono la disoccupazione come “un male che può diventare un disastro sociale, le cui conseguenze non vanno sottovalutate”.
Famiglie a rischio. “Credo che il mondo del lavoro di oggi sia diventato più competitivo, più individualista”, osserva don Jim McCartney, fondatore e direttore di “Thomas”, un’associazione cattolica che tenta di reinserire nel mondo del lavoro persone ai margini della società, giovani esclusi, senza tetto, ex drogati, ex detenuti. Don Jim non è contrario al part-time e ai contratti a termine perché, fa notare, aumentano le possibilità di impiego di chi è ai margini della società ma ammette che queste soluzioni comportano uno stress notevole su chi ha una famiglia. “Non vi è dubbio – sottolinea – che il mercato del lavoro così come è costruito, con impieghi sempre più temporanei, con la tendenza delle persone a doversi spostare continuamente, spesso trasmette una sensazione di grande instabilità ed essa ha un effetto negativo sulla famiglia”. Concorda don Philip Scanlan della parrocchia cattolica di St. Mary’s di Loughborough, una cittadina di cinquantamila abitanti nel nord di Inghilterra. “Il lavoro part-time – nota don Philip – i contratti a termine, la tendenza ad impiegare sempre più spesso le donne a tempo pieno rischiano di avere conseguenze negative sulla famiglia. Le autorità dovrebbero tenere presente anche questi aspetti nel definire le politiche occupazionali”.