Sicurezza pubblica

Dopo i fatti di Genova un buco nero: la mancata riflessione

Il sociologo Maurizio Fiasco invita a riflettere non solo sulle “responsabilità sicuramente individuali”, ma sul “fallimento gravissimo sia di un modello gestionale sia organizzativo”. La formazione e il numero identificativo sul casco. Una questione sottovalutata: molti poliziotti provengono da corpi militari dopo esperienze in zone di guerra, con difficoltà nel contenere l’aggressività

Ha suscitato polemiche il post dell’agente Fabio Tortosa, che su Facebook ha rivendicato il blitz alla Diaz durante il G8 di Genova nel 2001. Post per il quale, ha annunciato il capo della Polizia, Alessandro Pansa, Tortosa è stato sospeso dalla Polizia. Eppure quel post ha ricevuto quasi 200 “mi piace”. Torna allora lo spettro di quanto avvenuto proprio quattrodici anni fa a Genova? Ne parliamo con Maurizio Fiasco, sociologo specializzato in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica.

Quale deve essere il profilo “democratico” della polizia in un Paese democratico come il nostro?
“È la questione di come si promuove un sentimento profondo di dignità della funzione che si esercita in uno Stato democratico. L’Italia ha fatto sua la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Poiché siamo in uno Stato democratico la polizia è un servizio per l’affermazione e la protezione dei valori fondamentali dell’ordinamento. Non è il braccio armato del potere, ma rende esigibile un diritto di rilievo costituzionale che è la sicurezza. Essa diventa la funzione per esercitare questo potere discrezionale incardinato nell’ordinamento. Questo fatto ha tutta una serie di implicazioni. Ad esempio, da noi la sicurezza è un bene pubblico di cui lo Stato detiene il monopolio, funzionale all’architettura dello Stato di diritto: non può esserci una via privata alla sicurezza personale. Perciò, in uno Stato democratico la polizia è un servizio, il che significa che non ha in sé il suo scopo; è un’istituzione di garanzia: per questo, quando ci sono delle devianze, esse sono ancora più gravi. In uno Stato democratico, la polizia, quindi, è un servizio che va valutato per i valori, i comportamenti e i risultati”.

Come si scongiurano episodi come quello avvenuto a Genova durante il G8?
“Il ‘come’ attiene al modello organizzativo e al modello gestionale che devono essere coerenti con gli scopi di servizio. La polizia è un servizio che tutela un bene materiale e immateriale: la fruizione dei diritti che la Repubblica riconosce al cittadino in un quadro di diritti e di doveri. Quando c’è una devianza nel comportamento della polizia si confronta l’agire e il modello organizzativo. I fatti di Genova sono responsabilità sicuramente individuali, ma anche conseguenza di un fallimento gravissimo sia di un modello gestionale sia di quello organizzativo. Se si vuole prevenire il ripetersi di questi episodi, è basilare una riflessione sul modello organizzativo e gestionale, mentre il buco nero a 14 anni da Genova è proprio la mancata riflessione su tutto questo. Ovviamente, anche se il modello organizzativo e la gestione sono sbagliati, resta la responsabilità personale perché c’è un valore trascendente, ossia la legalità: non si può organizzare una spedizione in cui si usano metodi barbarici contro la dignità della persona, come la tortura”.

Quanto è importante la formazione?
“Un altro pilastro è la formazione non come addestramento, ma come formazione continua del personale di ogni qualifica e grado. Per tanti anni ho insegnato in istituti di formazione della polizia: so bene che c’è il continuo passaggio da un modello didattico a un altro. Si danno, quindi, svariati messaggi al personale, che poi ha difficoltà a orientarsi. Bisogna individuare un modello formativo permanente appropriato e seguirlo con continuità”.

Cosa pensa della possibilità di mettere un numero identificativo sul casco degli agenti?
“Non può essere una scelta sostitutiva alla riflessione sulla gestione, sulle motivazioni e sulla formazione. Poi ci possono essere degli accorgimenti che accompagnano queste scelte. C’è un criterio generale per tutti i pubblici funzionari, che devono essere identificabili dal cittadino. C’è, però, una particolarità per i servizi di polizia perché il cittadino che può identificare il poliziotto tanto può essere una persona perbene quanto chi va contro la legge; quindi si devono adottare procedure che garantiscano anche l’agente di polizia da possibili vendette. E questo è possibile grazie alle nuove tecnologie a disposizione, capaci di realizzare una fedele ricostruzione dei fatti”.

Secondo lei, Tortosa è un caso isolato o c’è nella “pancia” della polizia questa propensione di “menare le mani”?
“In tutte le organizzazioni, specialmente quelle militari o speciali, si forma una subcultura che mette in discussione anche la leadership istituzionale. C’è un senso comune di frustrazione molto pericoloso. Un problema serio è la formazione dell’identità del poliziotto. Una volta il reclutamento degli agenti di polizia avveniva dalla società civile e il processo formativo avveniva all’interno del sistema di polizia. Da una quindicina d’anni una parte importante del personale entra in polizia dopo aver fatto un’esperienza di tre-sei anni in un corpo militare, spesso in luoghi segnati da vere e proprie guerre. Quindi, questi uomini e queste donne, che hanno ricevuto un imprinting di tipo militare, devono entrare in un contesto di tipo civile e ristrutturare la loro identità. Questo spiega una maggiore difficoltà gestionale anche a contenere l’aggressività e le subculture, che si formano, e certi episodi di uso sproporzionato della forza e di violenza arbitraria. È un problema risolvibile attraverso una formazione molto attenta e con un modello gestionale accurato. Ci sarebbe bisogno anche di una visione politica illuminata e di un allargamento della cultura della società civile sul tema. In questo può dare una mano il mondo dei media cattolici che con continuità può affrontare tali temi”.