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Un ddl collegato alla legge di stabilità regolamenta il “lavoro agile” per chi, pur essendo dipendente, lavora fuori dall’ufficio. Un fenomeno in crescita, che riguarda in egual misura uomini e donne. Il parere di monsignor Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei
Insieme con la legge di stabilità potrebbe presto passare un disegno di legge collegato, predisposto da Maurizio Del Conte per conto del governo, che riguarda chi pratica quello che in inglese è chiamato “smart working”, il cosiddetto “lavoro agile”. Nove articoli che regolano un aspetto sempre più importante del lavoro moderno, fino ad oggi disciplinato da un accordo europeo del 2002 sul telelavoro. Il lavoro agile è una prestazione effettuata dai lavoratori dipendenti, e quindi non da partite Iva, fuori dai locali aziendali. Nel 75% dei casi vuol dire lavoro da casa e non sono solo le donne a usarlo, ma anche gli uomini. A differenza del “vecchio telelavoro”, giudicato poco allettante e una forma di ripiego per chi non aveva la possibilità di spostarsi, il lavoro agile avrà regole e tutele precise. Lo scopo di questa nuova forma lavorativa viene definito dall’articolo 1 del ddl: incrementare la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Il requisito per definirsi “smart working” è l’esecuzione della prestazione fuori dalle mura aziendali anche per un solo giorno a settimana. Elemento fondamentale è la volontarietà, a sua volta regolata da un accordo scritto tra le parti, nel quale siano definiti modalità e utilizzo degli strumenti tecnologici. L’intesa deve indicare anche le fasce orarie di riposo. Il lavoro agile può essere per un tempo determinato o indeterminato, ma si può recedere solo per giusta causa o con un preavviso non inferiore ai 30 giorni. La retribuzione non deve essere inferiore a quella dei colleghi che il lavoro lo svolgono in azienda. In termini di sicurezza, grazie a un accordo con Inail, gli infortuni saranno coperti sia che avvengano fuori dal lavoro, sia durante i tragitti, ad esempio per raggiungere uno spazio di “coworking”. Sono riconosciuti gli incentivi fiscali e le contribuzioni che la legge di stabilità prevede per la contrattazione di secondo livello. I nove articoli sono norme-cornice che lasciano spazio alla contrattazione collettiva e individuale. Tutto bello, allora? I rischi sono noti da tempo: il tempo del lavoro sconfina in quello libero, rendendo la giornata spesso un unico eterno turno di lavoro.
Purché le tutele siano adeguate. “Sul piano morale non c’è niente che contraddica il lavoro da casa: questo tipo di lavoro è sviluppato già da molti manager oggi. Non c’è niente di nuovo”. Lo sottolinea monsignor Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei. “Questa legge – evidenzia – tende a regolamentare il settore e di conseguenza a rivendicare dei diritti a favore dei lavoratori. È una tutela e una garanzia che noi caldeggiamo”. L’aspetto “positivo” del ddl è favorire “la conciliazione soprattutto per le persone che hanno famiglia, sia maschi sia femmine”. Monsignor Longoni è d’accordo con i dati del fenomeno che vedono usufruire del “lavoro agile” in egual misura uomini e donne: “Il discorso che il lavoro da casa sia una questione solo femminile è un po’ retrodatato. Non sono solo le donne che hanno questa esigenza di lavorare da casa”. In questo senso “è uno sviluppo in conseguenza del cambiamento generale in atto, che noi dovremmo assolutamente supportare”. C’è un punto importante, però: “Basta che le tutele che vengono esercitate sia nei confronti dei lavoratori sia nei confronti dei loro tempi familiari siano adeguate”.
Si punta alla maggiore produttività. Secondo monsignor Longoni, “oggi si tende ad accelerare una produttività maggiore: si pensa che tutto questo significhi, in qualche modo, maggiore lavoro, maggiore competitività, maggiore capacità di stare sul mercato. L’idea che c’è sotto è questa”. Dunque, “abbattere tutti i tempi di trasferimento dall’ambito lavorativo a quello di casa” può seguire “la logica che quei tempi possono essere risparmiati e, quindi, utilizzati a favore dello scopo dell’azienda”. Oggi, infatti, “la globalizzazione ci impone tempi che non sono i nostri e, quindi, probabilmente bisognerà che ci adeguiamo a vivere queste situazioni secondo una logica di sopportabilità”. D’altra parte, evidenzia il direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, “c’è un aspetto positivo: se questo permettesse – il che è tutto da verificare – dei tempi maggiori dedicati ai figli e alla famiglia, ma servirà vedere come saranno riempite di contenuti le norme-cornice”. Si tratta, fondamentalmente, “di un lavoro fondato sul progetto, si guarda ai risultati più che ai tempi di lavoro. Ci sono persone che riescono a reggerlo e non hanno bisogno di ambienti particolari, tipo un’azienda, per interagire. È chiaro che si usufruisce della capacità delle persone”.