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L’abbattimento del jet da combattimento russo Sukhoi Su-24 da parte di un F-16 turco, ha fatto emergere, ma non ce n’era bisogno, la politica ambigua di Russia e Turchia nella crisi siriana. Entrambi i Paesi vogliono imporsi come interlocutore principale nel quadro del riassetto nella regione. E lo fanno a colpi di missili. Il nemico non sembra essere più lo Stato islamico che potrebbe paradossalmente giovarsi di questa divisione
Russia e Turchia, ovvero il gioco delle ambiguità. La vicenda dell’abbattimento del jet da combattimento russo Sukhoi Su-24 da parte di un F-16 turco, non è altro che la cartina tornasole della politica ambigua dei due paesi nello scacchiere mediorientale e più in particolare in Siria. Al di là delle reazioni – “una pugnalata alle spalle inferta da complici dei terroristi. L’evento avrà serie conseguenze” le durissime parole di Putin, con Erdogan che rivendica il diritto a difendere i propri confini – i due Paesi, nell’area in questione, perseguono interessi diversi e per nulla coincidenti. Con buona pace della grande coalizione di cui tutti parlano per sconfiggere i terroristi di Daesh (acronimo arabo di Stato Islamico) e anche della Nato, di cui la Turchia è membro dal 1952. Il Sultano e lo Zar, legati fino a poco tempo fa da forti rapporti di interscambio commerciale e di cooperazione, come testimonia il patto preliminare per la costruzione del gasdotto Turkish Stream e per la fornitura di una centrale atomica con tecnologia russa, oggi, di fatto, non sono più in sintonia.
I fedeli del Sultano contro gli alleati dello Zar. Una rivalità strategica che trova, appunto, spiegazione nelle opposte ambizioni regionali dei due. Ankara vuole rovesciare il dittatore siriano Assad per trasformare la Siria in uno Stato sunnita ispirato ai principi della Fratellanza Musulmana, cui si rifà anche il partito Akp di Erdogan, e diventare il principale attore regionale vista la debolezza dei Paesi arabi. Mosca invece, appoggiando Assad, cerca una vittoria politica e militare, per imporsi in Medio Oriente a scapito degli Usa. In questo modo Putin si ritrova a combattere insieme all’Iran, a sostegno del presidente siriano Bashar al Assad il cui esercito combatte a fianco dei pasdaran iraniani e delle milizie libanesi di Hezbollah, tutti sciiti. Si combatte contro Daesh ma anche per indebolire le forze di opposizione ad Assad. Scopo della Russia è rafforzare la propria presenza in vista di una eventuale transizione politica siriana. La Russia, inoltre, accusa la Turchia di fare affari con Daesh, acquistando in contrabbando petrolio, opere d’arte trafugate e facendo passare, attraverso le sue frontiere, foreign fighters e mezzi. Erdogan, dal canto suo, continua ad addestrare le milizie anti Assad – forte di un accordo con l’Arabia Saudita – alle quali garantisce rifornimenti e armi. Nel contempo bombarda i curdi. I combattenti peshmerga (forze armate curde) sono i principali nemici di Daesh al quale hanno inflitto diverse sconfitte militari sul campo, grazie anche all’appoggio dell’aviazione americana. Obiettivo turco è quello di evitare che il prestigio acquisito sul campo di battaglia dai curdi valga loro il diritto di creare un proprio Stato tra la Siria e l’Iraq che verranno. Tra gli interessi del Sultano c’è anche il sostegno ai turcomanni nel Nord della Siria, l’etnia più vicina e leale ad Ankara. Ribelli turcomanni hanno detto di aver sparato ai piloti russi dopo l’abbattimento dei velivoli. Si spiegano così le accuse di Erdogan alla Russia di aver bombardato popolazioni turcomanne costringendole alla fuga. Un’emergenza umanitaria che sta coinvolgendo almeno 40mila persone e che si aggiunge a quella in corso dall’inizio della guerra (2011) che ha portato nel paese della Mezzaluna 1,9 milioni di profughi siriani. È di questi giorni la decisione della Commissione europea di dare il via libera allo stanziamento di 3 miliardi di fondi comunitari e nazionali alla Turchia, per aiutare il Paese a far fronte all’emergenza rifugiati. Un tema questo cui l’Ue è molto sensibile.
Unità di intenti. Europa e Nato seguono con una certa preoccupazione quanto sta accadendo e operano per evitare l’escalation tra Russia e Turchia, anche perché le tensioni in Medio Oriente trovano ulteriore sponda nel Vecchio Continente. I fatti di Parigi hanno riproposto in chiave drammatica e non più differibile il tema della sicurezza interna, del controllo delle frontiere, dei rifugiati e dei combattenti Daesh di rientro da Siria e Iraq. Per non parlare della recrudescenza del conflitto in Crimea, provincia filorussa annessa manu militari da Putin, ma considerata dalla comunità internazionale un pezzo di Ucraina. Come anche la Nato, organismo nel quale l’Ucraina non ha mai fatto mistero di voler entrare. Un sabotaggio dei tralicci dell’alta tensione da parte di estremisti nazionalisti ucraini e tatari, insieme alla decisione di Kiev di fermare l’export verso la penisola, ha riacceso le tensioni e costretto Putin a dichiarare lo stato di emergenza. Quella mediorientale, e siriana in particolare, rappresenta una sfida che nessuno Stato, per quanto forte, da solo potrà affrontare.
Mai come ora l’ordine deve essere ripristinato attraverso la collaborazione di tutte le potenze in campo, da quelle sovranazionali come l’Ue a quelle regionali e locali.
Senza ambiguità e doppi giochi. In ballo c’è una destabilizzazione di dimensione globale con costi altissimi per tutte le popolazioni.