Intervista
Sia i Calibre che gli A-101 “hanno dimostrato di essere molto efficienti. Si tratta di un’arma di precisione nuova, moderna e altamente efficiente e, come sappiamo, può essere armata tanto con testate convenzionali che con testate speciali, comprese quelle nucleari. Decisamente niente di tutto ciò è necessario per combattere i terroristi. E speriamo che non sia mai necessario”. Le analisi dei raid compiuti dalla Russia contro postazioni Isis a Raqqa, ordinate dal leader del Cremlino, Vladimir Putin, aprono a scenari inquietanti, se si arriva a teorizzare l’uso di armi nucleari. Rischio militare concreto o un deterrente politico? Esiste ancora una via diplomatica per mettere fine alla guerra in Siria? L’analisi del generale Vincenzo Camporini.
I missili di precisione Kalibr e i razzi da crociera A-101 “possono essere armati sia con testate convenzionali sia con testate speciali, cioè quelle nucleari. Certamente nulla di questo è necessario nella lotta ai terroristi, e spero che non sarà mai necessario”. Lo ha detto il presidente russo, Vladimir Putin, facendo il punto con il suo ministro della Difesa, Serghiei Shoigu sull’operazione militare in atto Siria. L’incontro con Shoigu è servito, infatti, per verificare l’efficacia dei missili, lanciati per la prima volta da un sottomarino di ultima generazione “Rostov sul Don”, che possono essere equipaggiati anche con testate nucleari. “Tutto deve esser analizzato, compreso quel che accade sul campo di battaglia e il modo in cui le armi colpiscono – ha spiegato il leader del Cremlino – tanto i Calibre che gli A-101 hanno dimostrato di essere molto efficienti. Si tratta di un’arma di precisione nuova, moderna e altamente efficiente e, come sappiamo, può essere armata tanto con testate convenzionali che con testate speciali, comprese quelle nucleari. Decisamente niente di tutto ciò è necessario per combattere i terroristi. E speriamo che non sia mai necessario”, ha ribadito Putin. Reale pericolo o deterrente militare? Lo abbiamo chiesto al generale Vincenzo Camporini, fino al 2011 Capo di Stato maggiore della Difesa italiana, ora vicepresidente dell’Istituto affari internazionali di Roma (Iai).
Generale, che valore dare alle parole del presidente Putin? Siamo forse davanti ad un’ulteriore escalation militare tale da prevedere anche l’uso di testate nucleari?
“Direi che questa è un’ipotesi assurda. Putin, stando a quel che riportano i media, non fa altro che ripetere concetti condivisi da tutti: le armi nucleari sono fatte per non essere usate. Hanno, quindi, un valore puramente politico di deterrenza e non operativo”.
Dunque un modo per la Russia di dimostrare la sua forza, visto che da settimane sta rafforzando il suo dispositivo militare nella regione?
“Certamente. Ma non è nulla di più di quella che è la dottrina nucleare dei Paesi che ne dispongono. Paesi, anche occidentali, che hanno armi nucleari per non usarle. Esse servono ad impedire che scoppi una circostanza per cui devono essere usate. Una sorta di riaffermazione di principio: nessuno dei Paesi dotati di armi nucleari pensa di usarle per combattere una battaglia. Credo neanche i Russi”.
Escludiamo l’uso di testate nucleari da parte di Russia, Usa, Francia, Gran Bretagna e Israele, (con Pakistan e India, ndr.) che sono le potenze nucleari direttamente coinvolte nella guerra in Siria. Non possiamo negare, però, che la crisi siriana stia subendo un avvitamento militare a danno di quello diplomatico. L’uso di armi sempre più moderne lo sta a testimoniare. Pensiamo al sottomarino di ultima generazione Rostov sul Don da cui sono partiti i missili contro le postazioni Isis…
“È indubbio che se voglio combattere una guerra lo faccio con i migliori armamenti in dotazione. Gli Stati Maggiori delle grandi potenze si comportano così. Può capitare, come in passato, che conflitti come questo possano essere usati anche per sperimentare nuovi armamenti”.
Il Segretario di Stato Usa, Kerry, prossima settimana volerà a Mosca. Ma esiste ancora l’opzione diplomatica?
“Non ho dubbi che esista ancora.
Un lavoro diplomatico deve esserci, perché l’opzione militare, di per sé, non ha nessun senso, se non è indirizzata a un obiettivo politico da conseguire. Purtroppo, siamo in una situazione in cui gli obiettivi politici dei vari contendenti non coincidono, anzi in taluni casi sono divergenti.
Deve esserci necessariamente un grosso lavoro a livello diplomatico per cercare di trovare punti di convergenza, che pure ci sono. Non pensiamo che la Russia, gli Usa, l’Italia o la Germania usino le loro Forze armate alla cieca, sperando poi che dalle macerie nasca qualcosa. Bisogna sapere prima cosa ricostruire sulle macerie”.
Il rischio Iraq, imploso dopo il ritiro Usa, lo sta a testimoniare…
“La storia è una gran maestra e noi siamo pessimi studenti”.
Restando sul piano militare c’è qualcosa di nuovo che potrebbe segnare una svolta nella guerra in corso?
“Rispetto a una decina di giorni fa dobbiamo registrare la decisione turca di mandare truppe in Iraq in un quadro di dubbia legittimità visto che il governo iracheno non le ha chieste. Erdogan sta conducendo una sua politica personale – l’abbattimento del velivolo russo vi rientra in toto – in cui il Paese della Mezzaluna sta cercando di trascinare anche altri membri della Nato. Questa mossa turca non è determinante sotto il profilo militare ma è preoccupante dal punto di vista politico. Potrebbe, infatti, avere conseguenze per la Turchia che verrà messa sotto la lente di ingrandimento anche per capirne l’affidabilità come alleato”.