Paure d’oltreoceano
Gli Stati Uniti si sentono chiamati in causa dalle minacce rappresentate dal Daesh in Medio Oriente e in altre regioni del mondo. I morti del Bataclan, le migrazioni di massa e il terrorismo pseudoreligioso diventano un tutt’uno. Le Chiese cristiane invitano alla prudenza e Gerard Powers (Catholic Peacebuilding Network) mette in guardia da un avventato ricorso alle armi. Intanto la campagna per le presidenziali si infiamma
“Non vogliamo che il male prevalga nei nostri cuori e il dolore paralizzi il nostro futuro”, ha detto l’arcivescovo Gerald Barnes all’indomani della strage di San Bernardino in California, davanti a una comunità sotto choc per l’attacco di ispirazione islamista che ha ucciso 14 persone. “La tragedia non si può cancellare. Ma non dobbiamo indurire i nostri cuori rispetto a persone di altri gruppi etnici o di altre religioni”. È nel segno del perdono che la comunità cattolica di San Bernardino e le centinaia di parrocchie nordamericane reagiscono a un fatto terribile che ha riaperto la ferita dell’11 settembre 2001. Ma questa tragedia, arrivata pochi giorni dopo gli attacchi di Parigi, pone anche la questione di cosa sia più saggio fare per l’America in merito alla doppia minaccia dell’Isis e del terrorismo. La politica e i media si interrogano, ed emerge da più parti l’idea di un intervento necessario, giustificato da una minaccia reale, dalla quale i cittadini americani non sono esclusi.
Quale la scelta giusta? “È un dilemma complesso”, spiega Gerard Powers, docente coordinatore del Catholic Peacebuilding Network presso l’istituto Kroc dell’università cattolica Notre Dame ed esperto della “dottrina della guerra giusta”. “Abbiamo il diritto e il dovere di affrontare il problema, ma non abbiamo il dovere di farlo in modo approssimativo e inefficace. Le soluzioni militari rapide, frettolosamente giustificate da profetici scenari rosei – la pace, la libertà e la democrazia per l’Iraq e la regione, così come per l’Afghanistan -, sono già state sperimentate in passato. E non hanno funzionato. A questi interventi è mancato il realismo, essenziale per ogni seria etica di offensiva militare. Questi interventi, anzi, hanno contribuito ad esacerbare il problema”.
Questione di responsabilità. Per Powers è fondamentale che
chiunque intervenga in Medio Oriente o in Africa abbia in mente un piano per il dopoguerra, per la graduale stabilizzazione dell’area,
che potrebbe richiedere non solo anni, ma decenni. “Un modo di guardare la questione”, prosegue Powers, “è attraverso le lenti della responsabilità di proteggere, che è anche la posizione della Chiesa. In pratica abbiamo uno Stato e mezzo che sono falliti. La Siria, completamente. L’Iraq, per metà. Qui i sunniti si sentono fortemente repressi” da un governo capeggiato da sciiti. Senza trascurare il problema della Libia. “E poi ci sono uccisioni di massa e genocidi” a opera dell’Isis. “Di fronte a tutto ciò – argomenta – la comunità internazionale deve poter mettere in campo una risposta adeguata. Ma credo sia questo aspetto della ‘responsabilità di proteggere’, la cornice più sensata nella quale inquadrare la situazione”.
Tattiche elettorali. Intanto lo choc, la paura, la tristezza e la rabbia suscitata dai fatti di San Bernardino e ancor prima da quelli di Parigi sono diventati materia elettorale. Le primarie cominciano all’inizio di febbraio in Iowa. Il più rapido a invocare politiche più aggressive contro la minaccia terroristica, sia tramite un intervento deciso in Medio Oriente sia sul versante interno, inasprendo le leggi migratorie, è stato il candidato repubblicano Donald Trump. Il ricco imprenditore dal ciuffo tanto importante quanto il suo ego, già dato in testa nei sondaggi in molti Stati-chiave delle primarie (New Hampshire, South Carolina e Florida), si è spinto a dire che alla luce della tragedia di San Bernardino è necessario un non meglio precisato “blocco temporaneo” all’arrivo di immigrati musulmani negli Stati Uniti. Invocando persino una censura a internet.
“Stratagemma per colpire”. Trump ha sostenuto a più riprese nei suoi recenti comizi in giro per l’America di ritenere l’arrivo di immigrati musulmani una sorta di “cavallo di Troia”, che potrebbe portare a ulteriori atti di terrorismo in città americane.
Nonostante le quasi unanimi prese di distanza, anche dell’establishment repubblicano (che gli è avverso), i duri editoriali della stragrande maggioranza della stampa americana, e le parole di condanna di vari ambienti protestanti e cattolici, di tante organizzazioni per i diritti dei musulmani e di altre minoranze oggetto di discriminazione in America, il messaggio non sembra aver danneggiato Trump.
Almeno per adesso. Anzi, il suo bacino elettorale teme davvero un aumento di questi fatti tragici anche a fronte di un percepito vuoto di leadership, di un’incapacità o di un disinteresse, del presidente Barack Obama, di intervenire in modo risoluto contro l’Isis.