Rebus dopo il voto

Spagna: gli elettori chiedono novità, ma non c’è una vera maggioranza politica

Le elezioni parlamentari di domenica 20 dicembre assegnano il primo posto al Partito popolare del premier uscente Rajoy, che però esce duramente penalizzato dalle urne. Quindi i socialisti e, a seguire, le nuove formazioni di Podemos e Ciudadanos. Per governare occorrerà, per la prima volta dal ritorno alla democrazia, una coalizione fra diversi partiti. I nuovi leader e la forza delle “piazze”

Spagna, 20 dicembre: elezioni politiche

Populismo o vera democrazia “dal basso”? Inconcludenti forze antisistema oppure sentenza popolare contro una politica ingessata, incapace di interpretare le attese dei cittadini? Dopo il voto spagnolo di domenica 20 dicembre torna il quesito riecheggiato infinite volte negli ultimi anni e tornato puntuale in Europa nel corso del 2015 con le varie elezioni in Francia, Regno Unito, Polonia, Grecia, Portogallo, Danimarca…

Quadro politico frammentato. L’“ordine di arrivo” delle elezioni in Spagna parla abbastanza chiaramente, benché la distribuzione dei seggi non consenta una netta maggioranza per governare. Il Partito popolare (Pp) del premier uscente Mariano Rajoy, che poteva vantare un accenno di ripresa economica ma preso di mira da tutti gli altri contendenti, arriva al 28,7% dei voti e a 123 seggi, fortemente ridimensionato dalle ultime elezioni e distante dai 176 seggi che consentono una maggioranza parlamentare. Il Partito socialista (Psoe) del giovane leader Pedro Sanchez è al 22,0%, con 90 seggi. La forza emergente di Podemos, trainata dal leader Pablo Iglesias, raggiunge il 20,7% con 69 seggi. Quarto partito i centristi di Ciudadanos, che, contrariamente alle aspettative, non vanno oltre il 13,9% e 40 seggi. A seguire i numerosi partiti regionali, peraltro a loro volta “asciugati” da Podemos, che fra l’altro diventa il primo partito nella regione basca e in quella catalana, schierandosi apertamente per una nuova e più forte autonomia di queste due aree scalpitanti del Paese.

Da Madrid a Bruxelles. Insieme i partiti tradizionali raccolgono quindi la metà dei voti degli spagnoli, ma entrambi perdono appeal e posti in Parlamento. Le forze nate negli anni della recessione, nelle piazze “indignate” per la crisi, la disoccupazione e la scarsa capacità di risposta della politica, fanno breccia tra i giovani ma non solo, eppure non sono al momento in grado di disegnare inediti scenari governativi. L’affluenza alle urne e le sostanziali diversità regionali del voto mostrano peraltro che l’opinione pubblica è più che mai divisa, e che il sistema politico spagnolo soffre di una “crisi depressiva” come non era mai successo dopo la caduta del franchismo e il ritorno alla democrazia. Resta il fatto che, come ha affermato Mariano Rajoy, “la Spagna ha bisogno di stabilità, sicurezza, certezza e fiducia”; “gli spagnoli hanno fatto tanti sacrifici, ora dobbiamo perseverare, mentre molte persone sono in difficoltà e bisogna creare posti di lavoro”. La parola d’ordine sarà dunque: coalizione. Finora, nel sistema del bipartitismo spagnolo, non ce n’era stato bisogno: ma adesso chiunque vorrà governare dovrà scendere a patti per trovare alleati e compagni di strada. L’Unione europea intanto osserva preoccupata, perché la quarta forza economica del continente necessita di una guida sicura e Bruxelles ha bisogno di un interlocutore certo in questa lunga fase di transizione.

Quadratura del cerchio. Più in generale Madrid e Barcellona, Valencia, Siviglia e Bilbao, rilanciano il messaggio che da tempo scaturisce dai seggi elettorali di tutta Europa: i partiti e gli schieramenti tradizionali ormai non rispondono alle multiformi e mutevoli prospettive politiche dei cittadini europei; gli slogan e le risse hanno spesso la meglio sul confronto relativo a valori e progetti; appaiono più accattivanti i leader urlanti, arrabbiati, indignati, magari con qualche venatura nazionalista o – al contrario – secessionista. Gli elettori premiano le facce e le voci nuove, le direzioni oblique, le roboanti ricette del “tutto e subito”, rispetto alla ingombrante, ma realistica, tortuosità della politica, che considera il tutto anziché il parziale, la complessità dei problemi rispetto a scorciatoie dal fiato corto. Però la Spagna insegna anche altro: che nell’era della politica guidata da Facebook e Twitter, la piazza, le piazze, riempite da persone e animate da nuove speranze, possono ancora avere una funzione potenzialmente innovativa. E ora che i cittadini spagnoli si sono espressi, ai vari leader politici tocca la quadratura del cerchio: rispettare il voto popolare ma arrivare, e presto, a dare al Paese un governo di prospettiva. La Spagna riparte da qui.