Terra Santa
I vescovi dell’Holy Land Coordination (Usa, Ue, Canada e Sud Africa) in visita a Taybeh, unico villaggio interamente cristiano in Palestina in mezzo ai tanti musulmani. Ma nessun assedio. Il parroco Abu Khalil: “Essere palestinesi di fede cristiana è qualcosa di speciale che determina una grande responsabilità anche nei confronti dei vicini musulmani: essere luce e strumenti di pace”. Una fabbrica di birra, di ceramica, di olio, per dare lavoro ai giovani e impedire l’emigrazione
La strada sale lentamente tra le colline più alte della Cisgiordania mostrando poco a poco un insolito skyline: un pugno di case bianche, tre campanili e nessun minareto. È Taybeh, l’unico villaggio interamente cristiano di Palestina, posto a una trentina di chilometri da Gerusalemme, sulla strada per Ramallah, l’antica Efraim del Vangelo, dove Gesù scelse di ritirarsi prima di recarsi a Gerusalemme per vivere la sua Passione. Oggi vi abitano stabilmente milletrecento cristiani, di rito latino, melchita e ortodosso, circondati da numerosi villaggi musulmani, ma non si sentono per questo né assediati, né una riserva indiana. Anzi. Sarà anche che qui, nel 1889 e poi nel 1898, sostò il beato Charles de Foucauld durante i suoi viaggi in Terra Santa cercando di essere, per ogni persona il “fratello universale”, ma i cristiani di Taybeh non rinunciano alla loro missione.
Senza paura. “Prima di tutto siamo palestinesi, e in secondo luogo cristiani – spiega senza troppi giri di parole il parroco padre Johnny Abu Khalil – essere palestinesi di fede cristiana è una grande missione e non dobbiamo avere paura di portarla avanti.
Vivere in un villaggio interamente cristiano è qualcosa di speciale e determina una grande responsabilità anche nei confronti dei villaggi musulmani vicini: essere luce e strumenti di pace”.
Tuttavia il forte attaccamento alla terra non ha evitato, in particolare negli ultimi dieci anni, l’emigrazione di molti suoi abitanti. Le difficoltà provocate dal conflitto israelo-palestinese, la rete di check point israeliani, un rinascente fondamentalismo islamico, spingono i più giovani a cercare un futuro stabile altrove. Per dare risposte concrete alla mancanza di prospettive dei suoi giovani, Taybeh si è dotata di scuole, due case di ospitalità per pellegrini, e di piccole fabbriche, olio, ceramica e una di birra, che l’ha resa famosa in tutto il mondo. “La permanenza dei cristiani in Terra Santa passa anche per queste strade. È necessario ascoltare i giovani, le famiglie – sottolinea il parroco – conoscerne le attese e speranze. Vogliono un futuro chiaro, studiare, potersi sposare, avere una casa, un lavoro, la dignità. Crescere nella fede. Trascorro molto tempo nella scuola del Patriarcato, dove tra tanti cristiani ci sono anche studenti musulmani dei villaggi vicini. Il rapporto è bello e consolidato. Questi ragazzi mi chiamano ‘abuna’ (padre), mi chiedono consigli, parlano. Per le relazioni tra cristiani e musulmani, che in questa terra convivono da secoli, ciò è molto importante”. Intanto con il Patriarcato latino di Gerusalemme è stato avviato un progetto abitativo per realizzare 45 appartamenti da destinare a giovani coppie cristiane, perché, dice il parroco, “una casa aiuta a sposarsi, ad allargare la famiglia con i figli e quindi anche la comunità. Siamo pochi ma dobbiamo essere il sale per la società palestinese”.
Un birraio cristiano tra i musulmani. Padre Abu Khalil condivide questo impegno con i suoi parrocchiani, tra i quali la famiglia Khoury che nel 1995 ha aperto a Taybeh l’unica fabbrica di birra dei territori palestinesi. E per farlo i suoi componenti sono rientrati appositamente dagli Usa, dopo la firma del Trattato di Oslo, quando sembrava dovesse soffiare un vero vento di pace. “La pace non è mai venuta – spiega il fondatore Nadim Khoury che è stato anche sindaco del villaggio – tuttavia nella fabbrica, che produce 6000 ettolitri di birra l’anno, continuano a lavorare 16 persone più quattro familiari”. Macchinari italiani, luppolo tedesco e bottiglie israeliane per un piccolo miracolo che ogni anno raccoglie anche migliaia di persone per una vera e propria “Oktober fest” in salsa palestinese. Ma questa attività vuole essere anche il segno di “una resistenza pacifica” a chi occupa il Territorio palestinese. Invece delle armi e della violenza si è scelto di creare lavoro, necessario a dare un futuro ai giovani che in tal modo pensano a restare invece che emigrare. “Questa è la nostra terra, qui sono le nostre radici umane e spirituali” ribadisce Khoury che ha deciso di investire i proventi della birra in altre attività come la produzione di vino. Un altro miracolo in un territorio circostante a maggioranza musulmana che per dettami religiosi non assume alcool. Altra iniziativa non violenta risale al 2004 e riguarda la produzione artigianale di lampade della pace, a forma di colomba, vendute in tutto il mondo con lo scopo di stimolare la preghiera per la pace e la solidarietà verso la Terra Santa. Nel locale laboratorio di ceramica sono impegnate circa venti persone che così riescono a far vivere dignitosamente le loro famiglie.
La chiave della pace. Il pensiero di padre Abu Khalil non si ferma a Taybeh. Dall’alto della collina, quando il cielo è terso, si vede la cresta del monte Nebo, nella vicina Giordania, dove sono riparati centinaia di migliaia di profughi in fuga da Siria e Iraq, a causa delle violenze dello Stato islamico contro le minoranze anche cristiane. “Non possiamo restare in silenzio davanti alla persecuzione dei cristiani” dice il parroco. “Non ci sarà mai pace fin quando non nascerà uno Stato palestinese accanto a Israele. La chiave della pace del mondo, infatti, si trova in Terra Santa”.