Rifugiati in Giordania
Nei racconti dei rifugiati iracheni di Mosul si ritrova la disperazione di aver perso tutto e la paura per un futuro che non promette nulla di buono. Oggi l’unica ricchezza è la fede che dona speranza. Speranza anche di avere presto un visto per gli Usa, Canada e Australia. “In Iraq – dicono in coro – non c’è più posto per i cristiani”. L’impegno di assistenza di Caritas Giordania e delle parrocchie locali. Una gara di solidarietà che non si ferma. Oggi tutti gli 8.500 cristiani iracheni e le poche centinaia di siriani alloggiano in centri e appartamenti ad affitto agevolato trovati per loro dalla Caritas e dalla Chiesa locale
(Da Amman) Non aveva ancora compiuto 18 anni Naeel, quando le milizie nere del Califfato sono entrate, senza sparare nemmeno un colpo di kalashnikov, nel giugno del 2014 a Mosul. La sua vita, dice, e quella della sua famiglia si è fermata in quel momento. Di fede siro ortodossa, Naeel è fuggito lasciandosi dietro i suoi sogni di giovane di belle speranze, studente in procinto di iscriversi all’università, magari seguire le orme paterne, ingegnere meccanico, sposarsi, avere una famiglia, vivere nella sua città natale. Sogni e speranze condivisi con tantissimi altri giovani, come lui costretti a fuggire dal Califfo Abu Bakr al-Baghdadi . Dall’estate del 2014 Naeel, con suo padre e il resto della famiglia, in tutto 5 persone, vivono nel Centro “Nostra Signora della Pace” di Amman, gestito dalla Caritas Giordania, che opera in seno al Patriarcato Latino di Gerusalemme e che complessivamente assiste circa 8500 cristiani iracheni in tutto il regno Hashemita. Naeel passa le sue giornate facendo qualche lavoretto per il Centro, ma nulla di stabile, studiando un po’. Ma le giornate sono lunghe, soprattutto per un giovane di appena 18 anni con tanta voglia di fare.
“Nel Califfato non c’è spazio per i cristiani, per le minoranze. Non potevamo restare in città. La scelta era tra convertirsi all’Islam, pagare la tassa di protezione o essere uccisi. Non abbiamo rinunciato alla nostra fede e siamo fuggiti con quel poco che siamo riusciti a portare via”.
Della sua casa, di ciò che era la sua vita prima dell’Isis non sa più nulla. “Tramite internet riesco a contattare qualche amico musulmano rimasto a Mosul. Mi dicono che sono stati costretti a seguire le regole imposte da Daesh (acronimo arabo per Stato Islamico n.d.r.) farsi crescere la barba, indossare abiti come tuniche. Dicono che la loro vita è cambiata. Qualcuno vorrebbe fuggire ma non è possibile, il rischio è troppo grande”. Naeel è in attesa di un visto per lasciare la Giordania, “gli Usa, l’Australia sono le mete privilegiate”, salvo poi ammettere che “qualunque Paese dove ci sia sicurezza e stabilità andrebbe bene”. Non certo l’Iraq, la sua terra. Quella pare essere stata cancellata quel giorno di giugno di un anno e mezzo fa. “Oggi non c’è più posto per i cristiani in Iraq. Ritornare a Mosul non è possibile. È accaduto altre volte di fuggire, dopo il 2003, con lo scoppio di scontri settari e la presenza di milizie di Al Qaeda. Siamo sempre tornati. Ma stavolta è finita davvero”. E poco importa se “la comunità internazionale si è mossa tardi, se l’esercito iracheno si è sfaldato e ora ha ricominciato a combattere come si è visto con la riconquista di Ramadi”. Per Naeel e la sua famiglia, come per decine di migliaia di altri cristiani, il tempo è scaduto. Ora è in Giordania.
Speranza in un visto. Nel centro lavorano anche Yousif, Yaqoob, caldei, e Kamel, siro ortodosso. I primi due vengono da piccoli villaggi della Piana di Ninive, Kamel da Mosul. Tutti sposati con figli piccoli. Non vivono al Centro poiché dalla Caritas hanno ricevuto in affitto agevolato un piccolo appartamento ad Amman e vengono al “Nostra Signora della Pace” per lavorare. In Iraq erano carpentieri e hanno deciso di continuare la loro professione in Giordania. Nel Centro hanno avuto la possibilità di mettere su una piccola falegnameria e da diversi mesi producono cassette per bottiglie di vino pregiato, compostiere in legno, oggetti artigianali che poi vendono. “Siamo fuggiti perché Daesh uccide i cristiani” spiegano i tre portando la mano sulla gola per mimare il gesto dello sgozzamento. “Abbiamo figli piccoli, che futuro avrebbero avuto in Iraq? Nessuno. Qui non siamo a casa nostra ma viviamo sicuri. I nostri figli possono studiare e la Caritas ci aiuta in tutto. Vorremmo poter lavorare di più, ma andiamo avanti”. Anche per loro la speranza è quella di un visto, “in Nord Europa dove abbiamo qualche parente già emigrato”. In Usa vorrebbe andare Amina, 75 anni di Mosul. Nella fuga dalla città ha perduto quattro familiari, tutti uccisi. Con il marito è in fila per prendere il suo pacco. Una stufa alogena, delle coperte e un po’ di generi alimentari. “La mia città è solo un ricordo – dice con rassegnazione – mi è rimasta solo una figlia che vive negli Usa dove è andata prima che scoppiasse la tragedia del Daesh. Sono cristiana ortodossa e mi avrebbero uccisa se non mi fossi convertita all’Islam. Ma io non rinuncio alla mia fede e sono scappata” conclude sorridendo. Le famiglie irachene continuano ad arrivare: dal vicariato caldeo di Amman stimano che nell’ultimo mese siano arrivate dai campi di accoglienza di Erbil (Kurdistan iracheno) almeno 50 famiglie. Anche per loro stessa procedura: richiesta di visto per Usa, Canada o Australia dove vivono nutrite comunità caldee e un lungo tempo di attesa – senza poter fare nulla – per ottenerlo. Si passa il tempo sperando in una chiamata.
I giochi dei bambini. Mentre gli adulti prendono i loro pacchi, il grande piazzale del Centro si riempie di bambini. Hanno ricevuto una busta con un giocattolo. Tuttavia sembrano preferire un vecchio pallone. Lo rincorrono vocianti tutti insieme, anche le bambine. Non ci sono squadre a contrapporsi. Spunta un volontario della Caritas a richiamarli. Bashar, il volontario, racconta che quasi tutti i bambini sono qui da almeno un anno, qualcuno anche di più. “Sono spensierati, almeno in apparenza, anche se ci chiedono quando potranno tornare ai loro giochi e alle loro case in Iraq. Difficile rispondergli”. Il volontario rimette in gioco il pallone e i bambini tornano a giocare. Spensierati, senza sapere fino a quando.