Sette

Kenya: false Chiese e regole controverse. La preoccupazione dei vescovi

Possono essere case in muratura o baracche non troppo diverse dalle altre in una bidonville, avere centinaia di fedeli o un solo un piccolo gruppo. Nomi e luoghi cambiano ma la sostanza è la stessa: sono ormai migliaia le Chiese autodefinite, diffuse nella capitale Nairobi come nel resto del Paese. Attorno a queste sette si muovono, in vari casi, anche notevoli quantità di denaro a beneficio degli autoproclamati pastori, uno dei motivi per cui il loro tasso di crescita preoccupa da tempo anche il governo di Nairobi

Possono essere case in muratura o baracche non troppo diverse dalle altre in una bidonville, avere centinaia di fedeli o un solo un piccolo gruppo. Nomi e luoghi cambiano ma la sostanza è la stessa: sono ormai migliaia le Chiese autodefinite, diffuse nella capitale Nairobi come nel resto del Paese. In comune hanno alcune caratteristiche. Fondatori che si attribuiscono il titolo di ‘profeti’ e vantano la capacità di compiere miracoli di vario genere (spesso la guarigione da ogni tipo di malattia, compreso l’Aids), ma anche dottrine che mescolano elementi nominalmente cristiani con tradizioni estranee alla fede, come la poligamia.

Nuove regole. In questo senso il caso del Kenya, dove il 14% dei cristiani non aderisce alla Chiesa cattolica né alle principali denominazioni protestanti, è emblematico di quello di molti Stati africani. “Queste Chiese non hanno una dottrina ben definita, né strutture permanenti: oggi ci sono, domani no – testimonia monsignor Philip Anyolo, vescovo di Homa Bay e presidente della Conferenza episcopale keniana -. Parlano di salvezza, ma poi manca un impatto sulla società, sulle condizioni concrete di vita dei fedeli”. Nonostante ciò, attorno a queste sette si muovono, in vari casi, anche notevoli quantità di denaro a beneficio degli autoproclamati pastori, uno dei motivi per cui il loro tasso di crescita preoccupa da tempo anche il governo di Nairobi.

Solo nel 2014, anno a cui risalgono gli ultimi dati, ben 7.000 richieste di registrare ufficialmente questi culti sono state respinte dalle autorità.

Alla stessa logica, dare ordine ad un’espansione incontrollata che rischia di tradursi in abusi, avrebbero dovuto rispondere anche le “Religious societies’ rules”, il progetto di regolamentazione delle associazioni religiose presentato alla fine dello scorso anno. Un insieme di misure che stabiliscono che i ministri del culto dimostrino di avere effettivamente titoli di studio che ne certifichino la formazione dottrinale, richiedendo anche che ogni denominazione religiosa sia ufficialmente inquadrata all’interno di un organismo che la rappresenti insieme ad altre affini. Ma soprattutto espandono i poteri di controllo delle autorità fino a permettere ispezioni a sorpresa e verifiche dei conti interni di ciascuna organizzazione e dei registri dei fedeli che tutte dovrebbero aggiornare mensilmente nei dettagli.

Impatto sui cattolici. Oltre che sulla situazione delle Chiese autoproclamate, le nuove norme dovrebbero anche tradursi in più controllo su quei luoghi di culto e d’istruzione islamici sospettati di propagandare l’ideologia estremista degli Shabaab somali: un’accusa che a febbraio 2014 portò a 129 arresti tra i partecipanti a una conferenza (proibita) sul jihad e nel novembre successivo ad altri 360 in alcuni controversi raid di polizia in più moschee di Mombasa. Le norme destinate a fermare predicatori improvvisati o radicali, però, rischiano di essere un ostacolo anche alle attività delle Chiese e delle organizzazioni religiose storiche, che spesso hanno un ruolo insostituibile anche in ambito sociale. È per questo motivo che i vescovi della Conferenza episcopale cattolica keniana hanno diffuso nei giorni scorsi un comunicato in cui chiedevano al governo di rivedere radicalmente la proposta di legge, un appello che è stato recepito dallo stesso presidente della repubblica, Uhuru Kenyatta. “Come Chiesa cattolica non siamo contrari a nessuna normativa – chiarisce ancora mons. Anyolo – ma molti dei campi a cui si applicherebbe sono già regolati dalla legge canonica e dalle altre strutture interne alla Chiesa: le disposizioni del governo quindi rischiano di diventare superflue”. “I missionari stranieri ad esempio – prosegue – devono già chiedere visti di lavoro e documenti al governo, e ospedali e scuole rispettare le normative fiscali”. Il presidente della conferenza episcopale, la cui posizione è condivisa da altri leader delle grandi denominazioni cristiane e anche dalla principale sigla che rappresenta i musulmani nel paese, il Supkem, mostra di condividere la preoccupazione per la presenza di sette al di fuori di ogni regola: “Ma il governo ha già gli strumenti legali per controllare queste organizzazioni – dice – senza che con questa nuova proposta vengano colpite quelle realtà che già hanno strutture e meccanismi verificabili”.