Messa con gli immigrati a Berkeley
La folta comunità messicana trasferitasi, in modo regolare o meno, nella Baia di San Francisco è composta da persone che svolgono i lavori più umili: muratori, giardinieri, lavapiatti, infermiere, donne delle pulizie. Il legame con la propria terra e la volontà di costruirsi una nuova vita. La vicinanza con il Pontefice che parla la stessa lingua e richiama con forza i diritti degli ultimi
Puntuale, alle 10 e 45, Manuel posteggia il carretto con gelati, patatine e aguas frescas davanti al sagrato della chiesa di St. Joseph the Worker a Berkeley, in California. Famiglie numerose con bambini ben pettinati risalivano Addison Street per partecipare alla messa delle 11. E la banda di mariachi in scintillanti divise accorda violini e guitarrones al lato dell’altare. È una domenica speciale: il Papa in visita in Messico, il Paese da cui proviene gran parte dei parrocchiani, e sia pure questi messicani vivano negli Stati Uniti, a oltre tremila chilometri di distanza, la festa si sente anche qui.
Regolari e irregolari. “Siamo gente che lavora”, ci tiene a dire con un largo sorriso la signora Maria, 52 anni, due figli sulla ventina entrambi camerieri a Oakland. “Gli immigrati messicani qui a Berkeley, Oakland e in tutta la Baia di San Francisco sono muratori, giardinieri, lavapiatti, baristi, infermiere, donne delle pulizie. Qualcuno ha i documenti, qualcuno no.
Ma siamo utili, eppure spesso passiamo per quelli che rubano il lavoro agli americani.
In tanti siamo qui – aggiunge – perché nel nostro Paese non si può fare una vita tranquilla, c’è troppa violenza, corruzione, e non c’è lavoro”. La maggior parte degli immigrati che arriva negli Stati Uniti è di origine messicana. All’incirca 150mila entrano ogni anno legalmente. Il numero degli illegali è invece solo una stima, ma il Pew Research Center dice che al tempo dell’ultimo rilevamento, nel 2014, erano 5 milioni e mezzo, circa la metà dei migranti senza documenti negli Stati Uniti, e sono concentrati soprattutto in California e in Texas.
Fede e orgoglio. E la stessa lingua. “La visita del Papa ha un significato enorme per tutti i nostri parrocchiani”, spiega al Sir don Alexander Castillo, prima di celebrare la messa, domenica 14 febbraio. “Da un lato la sua visita pastorale rafforza la loro fede, li rinfranca, li aiuta a proseguire con coraggio nel loro cammino di fede, nonostante le difficoltà che incontrano qui in America. Dall’altro rinvigorisce anche le relazioni con la parte di famiglia che questi immigrati hanno nel Paese natale, persone che magari sono riuscite ad andare a salutare il pontefice o partecipare a una delle messe”.
“Il fatto poi che Francesco parli castigliano”, aggiunge don Castillo, “facilita la comunicazione e rende il messaggio ancora più forte”.
Caccia alle streghe. In questi giorni i messicani, soprattutto quelli presenti negli Usa in modo illegale, sono quotidianamente additati come uno dei più grandi problemi dell’America di oggi da alcuni candidati alla presidenza, primo fra tutti il milionario Donald Trump: a ogni comizio ripete che uno dei punti fermi del suo programma è la costruzione di un alto muro lungo il confine con il Messico. Altri due candidati ispanici, Marco Rubio e Ted Cruz, entrambi di origine cubana, si dicono anche loro pronti a mettere in sicurezza il confine sia pure non enfatizzino il progetto del muro. Una riforma comprensiva del sistema di immigrazione sembrava il piatto forte del secondo mandato del presidente Obama; a questo progetto avevano partecipato pure senatori repubblicani come Rubio, ma ormai è accantonata. In tempi di primarie le proposte drastiche pagano elettoralmente più di quelle equilibrate.
Maggiore coraggio. “Quel che spero”, spiega alla fine della messa Pedro, padre di due bambine e un neonato, “è che questa iniezione di forza del Papa faccia cambiare anche i cattolici in Messico, li renda più audaci. Vero, ci sono persone senza scrupoli in tanti quartieri e città, ma vivere nella paura continua, nel buio non si può. Dobbiamo reagire e camminare nella luce della Parola”.
Chiesa messicana. Secondo il Pew Research Center, l’86% dei messicani in Messico si dice cattolico, ma un recente studio di Andrew Chesnut, ordinario di Studi religiosi alla Virginia Commonwealth University, indica che solo un quarto di quella percentuale va a messa regolarmente. “Ci si augura che la visita del Papa possa galvanizzare i vescovi messicani”, dice Chesnut; “in un certo senso il pontefice e alcuni vescovi sono su lunghezze d’onda diverse su temi come quello della povertà”.
“Non basta lo sforzo generoso di un pugno di vescovi coraggiosi per cambiare il quadro. Tutta la gerarchia deve parlare la stessa lingua”.
E non sembrerebbe “un caso che il Papa, sin dalle battute iniziali del suo viaggio, abbia richiamato” anche i vertici della Chiesa messicana a un nuovo inizio.