FESTIVAL DEL CINEMA
Il leone d’oro a ”Desde Alla” del venezuelano Lorenzo Virgas, al suo esordio veneziano. La giuria ha poi premiato un altro film proveniente dal Sudamerica: si tratta di ”El clan” dell’argentino Pablo Trapero. A Charlie Kaufman il Gran Premio della giuria per il suo ”Anomalisa”, film d’animazione. L’Italia si aggiudica solo la Coppa Volpi con Valeria Golino. Premio Bresson all’iraniano Moshen Makhmalbaf
È l’opera prima di un venezuelano a vincere il Leone d’oro della settantaduesima edizione del Festival di Venezia. Si tratta di "Desde Alla", pellicola che racconta il complesso rapporto tra un adulto e un ragazzo di strada e che tocca, con tatto, argomenti scabrosi. Il regista Lorenzo Vigas, oltre che esordiente, è anche il primo autore venezuelano a partecipare al Festival lagunare: si può ben dire che abbia fatto subito centro. La giuria presieduta dal messicano Alfonso Cuaron ha poi premiato un altro film proveniente dal Sudamerica: si tratta di "El clan" dell’argentino Pablo Trapero, storia vera che racconta l’inquietante vicenda di una apparentemente rispettabile famiglia argentina. Siamo negli anni Ottanta, nel difficile periodo di ricostruzione del Paese dopo la dittatura, e "il clan" Puccio sequestra molti ragazzi di famiglie facoltose, per chiederne il riscatto. Abominevole fatto di cronaca, la cui singolarità e follia costituiscono motivo di indubbio interesse, che, nella pellicola, resta sospeso tra denuncia e dramma.Due scelte anticonvenzionali, non pronosticate, che lasciano a bocca asciutta i nomi dati per papabili (soprattutto il russo Aleksandr Sokurov con il suo "Francofonia", riflessione sull’arte, la guerra, la vita, il senso dell’essere, ambientato nel Louvre durante l’occupazione nazista della Francia). Due scelte che indicano, però, due tendenze ben precise: da una parte, la "nueva hola" sudamericana che sta investendo il cinema contemporaneo (basti ricordare che solo negli ultimi due anni sono stati due messicani a vincere l’Oscar, Cuaron, appunto, e Inarritu); dall’altra, l’attenzione ad un cinema che sia capace di raccontare storie "vere", che ci illuminino sulla realtà, ma che siano anche in grado di rievocare il passato, per non dimenticare. Oltre a "El clan", infatti, al Festival si sono visti anche "Remember" di Atom Egoyan, storia di un ebreo sopravvissuto al campo di concentramento che cerca il suo aguzzino nazista per vendicarsi, e "Rabin: the Last Day" in cui Amos Gitai ricostruisce l’omicidio del primo ministro israeliano con spezzoni d’epoca. Un cinema al servizio della storia, dunque, che vuole risvegliare le coscienze, far riflettere, ricordare.Nonostante i quattro film presenti in concorso, l’Italia si deve accontentare soltanto del premio alla migliore interprete: una bravissima Valeria Golino che, in "Per amor vostro" di Giuseppe M. Gaudino, offre il suo intenso volto ad Anna, madre e moglie sottomessa in una Napoli che affoga in un marciume morale, a cui la protagonista vorrebbe ribellarsi. Il Leone come Miglior interprete è stato, invece, assegnato al francese Fabrice Luchini, "l’uomo con l’ermellino" di "L’Hermine", giudice imperturbabile e solenne, "giusto" (la verità è altra cosa e non ci compete, afferma ad un certo punto) e moderato, inibito all’eccesso (non perde mai la pazienza) così come al difetto (non può lasciar correre l’imprecisione linguistica, deve intervenire), almeno fino a che non vede qualcosa (qualcuno). Due ritratti intensi e minimali a cui la Golino e Luchini hanno dato spessore e tridimensionalità.A Charlie Kaufman, invece, il Gran Premio della giuria per il suo "Anomalisa", film d’animazione in stop-motion. Anche questa una scelta non scontata, ma che segnala un’altra importante tendenza contemporanea: l’affermazione ormai definitiva del genere d’animazione come genere artistico, adulto e a volte più innovativo dei generi tradizionali.Infine il Premio Bresson, l’onorificenza assegnata dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, dalla Rivista del cinematografo, dal Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali e dal Pontificio Consiglio della cultura a quei registi impegnati in una profonda e spirituale riflessione sull’uomo e sull’esistenza, è andato a Moshen Makhmalbaf, autore iraniano, da anni perseguitato nel suo Paese perché ha realizzato pellicole che denunciano le storture della dittatura. Un cinema che si è fatto portavoce degli umili e degli oppressi, sempre in prima linea contro ogni guerra, fondamentalismo e ingiustizia.