La mappa della Jihad in Africa

In Africa la lotta per la supremazia tra Al Qaeda e Daesh. Sulla pelle dei popoli e delle minoranze religiose

Un fenomeno complesso che non si spiega solo con la lotta globale all’Occidente. Le reti jihadiste in Africa, che fanno capo ad Al Qaeda e Daesh, non vogliono solo provocare lo scontro tra civiltà islamica e occidentale ma  anche la destabilizzazione e la caduta di Stati dal passato coloniale, insinuandosi in ogni area di crisi.  Una lotta quotidiana a colpi di bombe, spargendo morte e violenza. A farne le spese popolazioni inermi e  minoranze religiose usate come cassa di risonanza internazionale. La risposta? “Investire per il rilancio economico e sociale dei Paesi. La forza militare deve servire solo a creare le condizioni di un vero sviluppo sociale” afferma l’analista del Cesi, Marco Di Liddo

Non solo Lahore, Parigi, Istanbul e Ankara e più recentemente Bruxelles e l’Unione europea. Senza dimenticare New York, Mosca, Peshawar, Londra o Madrid. La violenza jihadista non conosce confini, diventa globale stringendo nella sua morsa interi Paesi e Continenti. La sanguinosa strategia di gruppi come Al Qaeda e Daesh (Stato Islamico) si proietta nel resto del mondo con attacchi terroristici che hanno lo scopo di destabilizzare e dimostrare la propria potenza. E in questa strategia l’Africa rappresenta un fronte aperto, come testimoniano gli attentati in Tunisia, in Nigeria, in Kenya, in Mali, in Sudan, in Somalia, Etiopia, Costa d’Avorio e Repubblica Centrafricana. Al Qaeda e Daesh si contendono così la supremazia della galassia fondamentalista in Africa, culla del Jihadismo, visto che qui, e più precisamente in Sudan, Bin Laden fondò Al Qaeda.

Tre “punti caldi”. Secondo Marco Di Liddo, analista esperto di Africa, Balcani ed ex-Urss, del Cesi, il Centro Studi internazionali, i punti caldi della Jihad in Africa sono riconducibili a tre “macro regioni. La prima è il Maghreb e la zona costiera del Nord Africa, dal Marocco all’Egitto in cui abbiamo gruppi dal forte ascendente locale, che controllano il territorio e sfruttano le difficoltà di Stati esplosi come la Libia o in grande difficoltà di transizione come la Tunisia. La seconda è la fascia del Sahel dove Al Qaeda sfrutta le alleanze tribali controllando di fatto le vie di comunicazione usate nei traffici illeciti, fonte di finanziamento per i gruppi affiliati. Terzo punto caldo è l’Africa subsahariana, la vera frontiera dove i gruppi jihadisti intendono affermarsi, quindi Nigeria, Costa d’Avorio, Burkina Faso e tutti quei Paesi africani a rischio per via delle condizioni sociali in cui versano e di una conflittualità etnica interna dove lo Stato islamico e Al Qaeda possono infiltrarsi”.

La galassia jihadista. Rivali sul terreno, ma uniti da ragioni ideologiche, Al Qaeda e Stato islamico attecchiscono in zone e con agende politiche e operative differenti. Lo Stato islamico è più pericoloso lì dove i gruppi locali hanno la possibilità di controllare il territorio e creare uno Stato parallelo, un emirato, sfruttando le fratture etniche presenti. Al Qaeda agisce come rete e sfrutta i traffici, non ambisce a costruire uno Stato ma a mandare avanti le proprie attività. Spiega l’analista del Cesi: “Al Qaeda in Africa punta soprattutto sulla capacità di mettere in rete gruppi jihadisti che hanno un’agenda locale consentendo lo scambio di competenze e di legami finanziari. Quello qaedista è un modello di jihadismo a macchia di leopardo. L’organizzazione di Bin Laden risulta particolarmente forte nell’area del Sahel riuscendo a coordinare i gruppi nascenti in Costa d’Avorio e Burkina Faso. L’etnia di riferimento di Al Qaeda in questa area è quella dei clan Tuareg. Essendo nomadi, conoscono bene il territorio e le reti in esso attive, controllano le vie di comunicazione traendo dai traffici il necessario per pagare i capi tribù, i miliziani, acquistare armi e munizioni”. Diverso l’approccio dello Stato Islamico che, sottolinea Di Liddo, “punta a investire su quei soggetti in grado di controllare in maniera diretta, e dunque amministrare, il territorio creando delle realtà parastatali a tutti gli effetti”. È quanto sta accadendo in Libia, nel sud della Tunisia, e in Nigeria, dove opera Boko Haram, gruppo tra i più affermati della realtà subsahariana. “Lo Stato islamico – aggiunge l’esperto – punta in prospettiva anche a infiltrarsi tra i miliziani somali di al Shabaab”.  Le tre fonti maggiori di finanziamento per i jihadisti sono “droga, armi e essere umani, quindi migranti. Poi ci sono generi di prima necessità come medicine e beni accessori come sigarette di contrabbando”.

Jihad e povertà. Tra i motivi che spingono persone e clan africani tra le braccia di Daesh e di Al Qaeda quello economico è forse il più valido. Un nesso innegabile unisce jihad e povertà.

“Al Qaeda e Isis – afferma Di Liddo – offrono lavoro, istruzione e welfare. Agiscono come vere e proprie associazioni caritatevoli. Sfruttano il malcontento, in chiave anti occidentale, di quei gruppi che sono sempre stati emarginati e messi all’angolo politicamente.

Il proselitismo si diffonde attraverso la testimonianza dei miliziani, nei consigli dei villaggi dove vanno a parlare ideologi radicali, nelle moschee con imam fondamentalisti, e nei social network molto presenti nelle periferie degradate delle grandi città”. A pagarne le conseguenze sono anche le minoranze religiose: “dove agiscono i gruppi jihadisti – conferma l’esperto del Cesi – le minoranze religiose cristiane e animiste vengono perseguitate. Ufficialmente per motivi religiosi ma in realtà la lotta è politica ed economica.

I cristiani vengono accusati di essere conniventi con il Governo locale e con l’Occidente, di controllare l’economia. Sono il capro espiatorio del malcontento sacrificato sull’altare della violenza e della follia di questi gruppi”. Attaccare chiese e istituzioni cristiane, inoltre, ha lo scopo di dare risonanza internazionale alle proprie azioni.

Come contrastare la jihad in Africa? Non bastano contingenti armati, intelligence e scambi di informative. La radice del jihadismo – ribadisce Di Liddo – è politica, sociale e economica. Essa si sradica con una politica condivisa da tutti gli attori nazionali e internazionali, basata sul recupero e sul rinnovamento sociale di quei Paesi. Se le persone avessero casa, lavoro, scuola e sanità, non abbraccerebbero la causa jihadista”. L’azione di contrasto deve passare, quindi, perpolitiche di sviluppo, investimenti per il recupero economico delle aree depresse e nell’educazione. Molto utile anche la presenza di imam moderati nelle moschee per sfatare i miti del jihadismo. “La forza militare – conclude l’analista – deve servire solo a creare le condizioni di un vero sviluppo sociale”