Economia di guerra

Il commercio delle armi continua a crescere. Quale modello di sviluppo per il futuro?

Dopo tre anni di relativa stasi, dovuta soprattutto alla crisi economica, nel 2015 c’è stato uno scatto in avanti dell’1%. La percentuale non inganni: si tratta nel complesso di una torta di 1.676 miliardi di dollari, il 2,3% dell’intero prodotto interno lordo mondiale. Numeri utili come indicatori di tendenza, ma che devono essere valutati con circospezione perché si basano sui dati ufficiali, non sempre esemplarmente trasparenti, e soprattutto non tengono conto del vasto mercato illegale e clandestino

 

C’è un settore dell’economia mondiale che non è in crisi e, anzi, registra robusti segnali di crescita. Ma purtroppo non è una buona notizia, perché si tratta della produzione e del commercio delle armi. E il contrasto con l’andamento globale rende il fatto ancora più inquietante, anche se il rapporto tra le conseguenze sociali e geo-politiche della crisi economica e la prosperità dell’industria bellica è tutt’altro che misterioso e inedito. Nelle ultime settimane, sui siti d’informazione e sulla stampa italiana ed internazionale, sono comparse notizie e immagini che per certi versi sembrano appartenere a un film di fantascienza. Proprio in questi giorni, per esempio, è disponibile sul web un video sulla Sea Hunter, la più grande nave da guerra senza equipaggio mai costruita, progettata dalla Darpa (l’agenzia governativa americana per l’innovazione applicata alla difesa) con il compito specifico di dare la caccia ai sommergibili. Un settore sempre più strategico perché, secondo gli Usa, i russi starebbero a loro volta progettando dei droni sottomarini in grado di far esplodere mini-cariche nucleari in prossimità delle coste dei Paesi nemici. I cinesi, invece, arrivano dal cielo, attraverso una nuova generazione di atlanti ipersonici in grado di planare ad altissima velocità e a bassissima quota verso gli obiettivi, eludendo radar e sistemi anti-missile. Si potrebbe continuare la lista attingendo soprattutto alle novità che giungono dalla Russia, a dispetto della sua precaria situazione economica: il super-tank “Armata”, che sarebbe il più potente del mondo; i nuovi caccia Sukhoj 35, superiori anche ai finora invincibili omologhi americani; il missile intercontinentale Sarmat, capace di volare a 11.000 km/h e di perforare qualsiasi “ombrello” difensivo. E poi ci sono le ricorrenti notizie, o presunte tali, che giungono dalla Corea del Nord, tanto inquietanti quanto difficili da distinguere dalla mera propaganda di regime.
Ma anche al di là del caso-limite di Pyongyang, c’è un che di promozionale in questa profusione di notizie fantasmagoriche in un settore in cui la segretezza è la regola numero uno.

L’impressione è che tutto (o quasi) quel che si viene a sapere, sia all’origine diffuso con una precisa strategia comunicativa, rivolta da un lato ai governi e alle opinioni pubbliche dei rispettivi Paesi, che devono finanziare e sostenere la spesa bellica, e dall’altro ai Paesi terzi potenziali acquirenti.

Ancora due esempi per avere un’idea della posta in gioco: nel solo 2015 la Russia ha esportato armamenti per 6 miliardi di euro e le richieste per l’anno in corso promettono un incremento; il governo degli Stati Uniti ha varato un piano di riarmo pari a 8 miliardi di dollari.

Che la spesa militare abbia ripreso a crescere su scala mondiale lo confermano i recenti dati del Sipri di Stoccolma, il centro-studi indipendente che è considerato la più importante autorità in materia. Dopo tre anni di relativa stasi, dovuta soprattutto alla crisi economica, nel 2015 c’è stato uno scatto in avanti dell’1%. La percentuale non inganni:

si tratta nel complesso di una torta di 1.676 miliardi di dollari, il 2,3% dell’intero prodotto interno lordo mondiale.

Numeri utili come indicatori di tendenza, ma che devono essere valutati con circospezione perché il Sipri elabora i dati ufficiali, non sempre esemplarmente trasparenti, e soprattutto non è in grado di contabilizzare il vasto mercato illegale e clandestino. Guardando alle spese militari dei singoli Stati, al primo posto ci sono ancora gli Usa, che però risultano in lieve calo, seguiti nell’ordine da Cina, Arabia Saudita e Russia, tutti e tre in sensibile aumento. La posizione dell’Arabia Saudita dice molto sul livello di tensione e di conflitto nello scacchiere di cui è parte..

Per il Sipri l’Italia si colloca al dodicesimo posto e la sua spesa militare è in diminuzione. Un dato su cui ha da eccepire la Rete per il disarmo (il coordinamento nazionale a cui partecipano molte organizzazioni, anche cattoliche), secondo cui l’istituto svedese non computerebbe alcune voci che nel bilancio statale italiano sono allocate diversamente. In base ai calcoli della Rete, eseguiti facendo riferimento ai numeri contenuti nella legge di stabilità, la spesa militare italiana sarebbe in crescita, non in calo. Vanno in questa direzione anche le cifre del rapporto annuale sull’esportazione di armi, presentato proprio in questi giorni dal governo al parlamento, che registra per il 2015 un export di valore sostanzialmente triplicato rispetto all’anno precedente. Chiedono comunque investimenti più certi e consistenti, ovviamente, i produttori di quelli che vengono definiti “sistemi di difesa”, cominciando dal colosso pubblico Finmeccanica. Il nono fabbricante di armamenti a livello mondiale (fonte Sipri) dal 2017 si chiamerà Leonardo per marcare il nuovo corso rispetto a un passato da cronaca giudiziaria. Paradossalmente il richiamo al genio italico per eccellenza avviene in un momento in cui l’azienda si sta sempre più concentrando sulla produzione militare rispetto agli altri comparti.
Del resto, come si è visto, quello dell’industria bellica è uno dei pochi settori che tirano. Non solo. E’ un mercato che ha una perversa capacità di auto-alimentarsi. Torna alla mente la reiterata denuncia di papa Francesco sulla stretta connessione fra l’origine delle guerre e il mercato degli armamenti. E’ una spirale a cui è difficile sottrarsi, se si accetta la sua logica di fondo. Ad ogni azione di riarmo da parte di un nemico o concorrente potenziale corrisponde una reazione analoga della controparte e così gli stock di armamenti crescono, mentre l’obsolescenza tecnologica spinge a dismettere pezzi di arsenale che vengono rimessi sul mercato e destinati ai Paesi meno ricchi.
Il meccanismo agisce a tutti i livelli, tra potenze grandi e meno grandi, ma anche in situazioni fortemente asimmetriche.

Nella stessa Europa, di fronte al riarmo russo e alla politica aggressiva del Cremlino, hanno deciso di rilanciare le spese militari persino Paesi che per tradizione sono molto lontani dallo stereotipo bellicista, come Norvegia e Danimarca, o hanno addirittura una storia neutralista, come Finlandia e Svezia.Beninteso, non è in questione il diritto a difendersi e a fermare l’aggressore, né si possono mettere sullo stesso piano democrazie e dittature. Tirare in ballo questi temi così rilevanti quando si parla di mercato delle armi è una sorta di ricatto morale che serve a nascondere ben altre ragioni e motivazioni. Se i mercati finanziari premiano l’industria bellica nelle situazioni più gravi di conflitto o all’indomani di eventi tragici, com’è accaduto in modo vistoso dopo gli attentati di Parigi, è solo un’impudica questione di interessi e di affari. E se si investono risorse enormi per produrre e comprare armi, ma non si trovano i fondi per combattere la povertà e promuovere una ripresa vera, che aiuti la vita delle persone, delle famiglie e dei popoli, in questione c’è un modello di sviluppo che non solo è umanamente inaccettabile, ma non può realisticamente reggere ancora a lungo.