Un caso serio

Sport e doping: torna a splendere la stella di Alex Schwazer. Dalla sua rinascita un esempio per tutti

Una vittoria non solo dell’atleta ma anche, e soprattutto, dell’uomo. Questi 50 chilometri, vinti in scioltezza in 3h39’00’’, sulle strade lastricate di Caracalla, a Roma, riconsegnano allo sport italiano un Alex Schwazer nuovo. Il marciatore altoatesino si ripresenta così, a quattro anni dalla squalifica per doping, vincendo nella 50 km di marcia a squadre, trascinando l’Italia al primo posto mondiale e staccando il pass per le Olimpiadi di Rio a luglio. Un percorso di rinascita sportiva e di ricostruzione umana da additare come esempio non solo al mondo sportivo. Perché, come sottolinea don Mario Lusek, cappellano della squadra azzurra olimpica, “una persona non è solo la somma dei propri errori”.

“Ha vinto una doppia sfida, come uomo e come atleta – racconta al Sir don Mario Lusek, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale del tempo libero, turismo e sport e cappellano degli azzurri – c’è un futuro per chi compie delitti gravi e per questo paga in carcere e ci deve essere anche per chi pratica sport.

Alex ha pagato tutto con una lunga squalifica. Ha confessato tra le lacrime, ha chiesto scusa, non ha nascosto nulla. La persona vale al di là dei suoi errori e dei suoi peccati”.

Mentre parla don Lusek agita sorridendo un poster con la foto dell’atleta altoatesino che taglia il traguardo avvolto nel tricolore. In fondo è come se quel traguardo lo avesse tagliato un po’ anche lui, visto che da tempo segue in modo “discreto” il percorso di rinascita del marciatore.

Non vuole sentire parlare di radiazione. Che è come una condanna a morte per un atleta.

“Invece dagli errori, dai fallimenti, dalle sconfitte si può ripartire nella vita così come nello sport. Il doping è inganno ma diamo una possibilità di ricostruirsi a chi capisce di avere sbagliato”.

“Ecco perché – sottolinea il cappellano azzurro – la vicenda di Schwazer può essere portata come esempio di rinascita. È stato bello ricominciare con un gesto del genere, mettendosi al collo una medaglia d’oro”. Come quella olimpica di Pechino nel 2008 che l’atleta ha sempre rivendicato come pulita.

“Il doping è un fallimento, è una sconfitta, ma da lì si può ripartire”

ribadisce don Lusek che si chiede: “quali azioni sono necessarie per una atleta che vuole ricostruirsi come persona e come sportivo, che vuole lasciarsi alle spalle un’esperienza per nulla esaltante ma solo demolitrice e infangante la sua carriera? Da una visione dell’uomo, della vita, dello sport e dell’atleta originata dall’esperienza sul campo e dall’esperienza cristiana che ha nella ‘creaturalità’ della persona creata ad immagine di Dio la sua centralità – aggiunge il sacerdote – può svilupparsi un percorso di rigenerazione. Se questa ‘somiglianza’ è stata sfigurata dall’errore, dalla fragilità, dal male, la persona, l’atleta resta sempre ‘immagine’ del Dio creatore”. Allora il primo passo sarà “un modo diverso di rapportarsi con l’errore del doping e dell’errante.

Chi si è dopato ha perso la sua dignità, l’ha persa delegando ad una sostanza il suo impegno, ma non ha perso se stesso. Nell’accollarsi la colpa ha già la sua pena, perché il doping gli ha rivelato la sua sconfitta più cocente, il suo fallimento, e l’umiliazione dei tifosi e mediatica subita.

Bisognerà allora riempire di nuovo di contenuti la coscienza che si è vuotata e spenta e illuminarla di nuovo. La condanna non è per sempre”.

Sulle strade di Roma Schwazer ha dimostrato che “c’è una possibilità per tutti, sempre”. Una risposta chiara anche a quella parte del mondo dello sport e della società che sembra non voler capirlo, come dimostrano le critiche rivolte al marciatore. “A Roma Alex ha vinto senza doping per cui invece di puntare l’indice tendiamo una mano”. C’è un altro insegnamento che arriva dalla vicenda di Alex Schwazer: Serve una nuova responsabilizzazione che deve ripartire dal rifiuto dei falsi valori per non invischiarsi innanzitutto in un doping esistenziale e ineluttabile e riformulare una propria scala di valori che riempia di senso e significato la propria esistenza sportiva. Autostima, fiducia nelle proprie capacità e risorse, affidamento a ‘maestri’ (allenatori, manager, dirigenti, medici) di ‘vita’ oltre che tecnici raffinati”.  Come Sandro Donati, l’allenatore noto soprattutto per le sue battaglie contro il doping nell’atletica leggera, che ha voluto credere nella rinascita di Schwazer e per il quale questa storia assume anche un valore catartico. “Per non ricadere nella tentazione del doping, e quindi del successo facile e immediato – continua don Lusek – c’è una vita interiore da vivere che allena ad uno stile di vita diverso da quello sperimentato nel doparsi. Parole come perseveranza, costanza, consapevolezza, rispetto, equilibrio, fatica, tenacia, conquista alimenteranno la vita interiore e daranno la spinta verso mete alte e possibili e impegneranno sempre a far meglio con le proprie energie”. Una persona “non può essere solo la somma dei propri errori. Da questi si può ripartire”. Come ha fatto Alex Schwazer sulle strade di Roma, direzione Rio de Janeiro.