Gerusalemme, bilancio di 8 anni di servizio patriarcale

“Non mi sono mai sentito solo!”. Il patriarca Twal parla alla fine del suo mandato

“L’amore di Dio mi ha sempre accompagnato, anche nei momenti più difficili, in questo tragitto di vita: sia durante il servizio diplomatico, lungo 18 anni, sia nella mia missione come Patriarca latino di Gerusalemme. Grazie alla Provvidenza divina e a tutti coloro che hanno lavorato con me in questo tempo. Non mi sono mai sentito solo”. Comincia con un rendimento di grazie, il Patriarca latino di Gerusalemme, il giordano Fouad Twal, a raccontare al Sir il suo servizio patriarcale nella Chiesa “madre di Gerusalemme” cominciato il 21 giugno del 2008. Celebrato da pochi giorni il suo 50° anniversario di ordinazione sacerdotale, Twal, secondo patriarca latino di Gerusalemme arabo, ripete quanto detto nella messa del Corpus Domini: “per rimediare alla situazione violenta e disastrosa nella quale è immerso il nostro Medio Oriente, occorre seguire la via aperta da Cristo stesso: franchezza, fedeltà e coraggio, e nello stesso tempo umiltà, misericordia e perdono reciproco”. Parole nelle quali è possibile ritrovare il senso del suo servizio pastorale

Patriarca Twal c’è un ricordo che più di altri porta con sé dopo tanti anni di servizio nella diocesi del Patriarcato che, ricordiamolo, comprende Israele, Palestina, Giordania e Cipro?
I viaggi in Terra Santa di Benedetto XVI e di Papa Francesco. Hanno conosciuto direttamente la situazione e le contraddizioni in cui viviamo qui. Ho visto la loro sofferenza davanti a tutto ciò.

Devo dire anche che i risultati di queste visite non sono stati quelli che ci attendevamo.

Papa Francesco ha fatto di tutto per promuovere la pace tra israeliani e palestinesi arrivando ad invitare, l’8 giugno di due anni fa, il presidente di Israele, Peres e il suo collega palestinese, Abu Mazen, nei giardini vaticani per invocare la fine dei conflitti in Medio Oriente. Un momento di grande speranza per il mondo. Purtroppo senza risultati. Solo tre giorni dopo il premier di Israele, Netanyahu, autorizzò la costruzione di 3000 appartamenti in territorio palestinese. Quel giorno fu piantato un ulivo che, nonostante tutto, continua a crescere, nel silenzio. E con lui la nostra speranza. Speriamo accada lo stesso nel cuore dei governanti e dei politici.

In questi anni ha lavorato anche per migliorare le relazioni diplomatiche tra Santa Sede, Palestina e Israele, contribuendo all’accordo fondamentale Santa Sede – Palestina e lavorando alla sigla di quello con Israele che purtroppo resta da firmare. Perché?
Ho avuto la gioia di apporre la mia firma all’accordo ratificato con la Palestina. Per quanto riguarda l’accordo fondamentale con Israele questo deve essere ancora ratificato dal 1993.

Un altro Stato avrebbe già rotto i rapporti diplomatici con Israele – non è serio che dopo tanti anni non si giunga ad una ratifica – ma la Santa Sede tradizionalmente non rompe mai i rapporti diplomatici.

Bisogna pregare che anche l’accordo con Israele venga presto siglato.

Nella sua missione ha sempre parlato del mai risolto conflitto israelo-palestinese, denunciando con forza l’occupazione militare israeliana, il muro di separazione e le colonie ebraiche in territorio palestinese. Ferite che sanguinano e che né la fede, né la politica riescono a sanare. Questa Terra vedrà mai la pace?

Il mio augurio è che si possa un giorno vivere da buoni vicini, due Stati in pace e non nemici. Purtroppo la politica è un’ombra che copre tutta la vita qui nella terra di Gesù. L’occupazione danneggia anche l’occupante che teme per la sua sicurezza e così facendo diventa più duro, non ha fiducia in nessuno, erige muri divenendo di fatto prigioniero di se stesso. L’esodo dei cristiani dalla Palestina, dalla Terra Santa è una piaga che nasce da questa situazione. Lo stesso vale per Gaza dove, a causa della guerra e della instabilità, la comunità cristiana si assottiglia sempre più. Ogni volta che vengono concessi dei permessi sono pochi quelli che fanno rientro. Restano da illegali in Palestina, privi di documenti e permessi, preferendo vivere così piuttosto che fare ritorno nella Striscia. La comunità internazionale, Europa in testa, deve far rispettare il diritto internazionale, senza timori o favoritismi.

Un altro dei temi a lei cari è quello del dialogo interreligioso ed ecumenico…
Non abbiamo il diritto di essere stanchi, disperati, di fermarci. Dobbiamo continuare a dialogare tra leader religiosi, ma al nostro fianco devono esserci anche i capi politici e militari.

Senza di questi non possiamo fare passi concreti in avanti. Dialogare per dialogare non basta e il rischio di perdere tempo è altissimo. Il dialogo, perché si affermi, deve nascere dal basso.

Vale a dire?
Nella scuole. Soprattutto in quelle cristiane in Terra Santa. Il loro ruolo nella formazione dei nostri piccoli allievi è basilare. Ne abbiamo ben 118 con oltre 75 mila alunni di tutte le fedi – insegniamo il dialogo, la tolleranza e la convivenza pacifica. Le scuole sono il mezzo più sicuro per dialogare. Gli allievi vivono, studiano e giocano insieme sin da bambini. Purtroppo le scuole cristiane in Israele vivono un momento difficile. Il Governo avrebbe dovuto versare 50 milioni di shekel, per fronteggiare un’emergenza finanziaria nata dopo il taglio dei fondi statali. Aspettiamo che il patto stipulato a suo tempo venga rispettato.

La missione di patriarca ha riguardato, tra le varie cose, anche la Giordania, suo Paese natale. Anche qui non mancano criticità e mi riferisco alla guerra in Siria e in Iraq che ha portato centinaia di migliaia di profughi e rifugiati. Una sfida che la Chiesa sta affrontando con grande sforzo…
Le nostre Chiese in Giordania stanno portando avanti un grande lavoro di accoglienza e assistenza dei rifugiati iracheni e siriani. Lodevole l’impegno di tanti giovani e famiglie giordane coadiuvati dalla Caritas e da tante Chiese internazionali. Un ringraziamento particolare lo vorrei rivolgere alla Santa Sede e alla Cei che sostiene tanti nostri progetti. Purtroppo la mancanza di un futuro chiaro sta mettendo a dura prova tanti migranti. Vorrebbero poter lavorare, andare a scuola, avere possibilità di vivere con dignità in attesa di fare ritorno nei loro rispettivi Paesi. Molti vanno in Australia, Canada o Usa, e non torneranno più. Il mio pensiero va anche a loro e a tutti quelli che soffrono per la guerra in Iraq e in Siria.