Il tempo che viviamo
L’inimicizia è un virus letale. Quasi un dna che tutti ci coviamo dentro, sin dal tempo di Caino. L’unico antidoto consiste nel personalizzare – e perciò nell’umanizzare – gli altri, per riscoprirci comunque somiglianti, anche noi talvolta inclini al male, così come anche loro pur sempre capaci di un qualche bene
La saga di Harry Potter ci ha abituati allo stesso ingenuo stratagemma dei suoi amici, che per non evocare lo spettro del malvagio Voldemort, evitano persino di nominarlo, preferendo riferirsi a lui con una locuzione palliativa: tu-sai-Chi. C’è stato un tempo in cui ho sospettato che dietro la metafora ci fosse una critica alla presunta disumanità del Dio biblico, il cui tetragramma è – per l’ebraismo – impronunciabile: Voldemort come Jhwh, e la religione di matrice biblica come una sorta di magia nera, che mira sempre e comunque a danneggiare i poveri babbani, gli esseri umani privi di risorse per resistere al male. Insomma, una divulgazione subliminale delle teorie, suffragate da una certa ricerca storico-critica, come quelle di Jan Assmann, secondo cui le religioni monoteistiche sono da sempre foriere di violenza, focolai di guerra. Poi, il timbro latino di quel sinistro appellativo gotico mi ha indotto a ipotizzare un’altra interpretazione:
Dio non c’entra con Voldemort, che è piuttosto il suo contrario, e non solo quale rappresentante del male che si oppone al bene, ma anche e soprattutto come simbolo della morte che minaccia permanentemente la vita. Il nemico pubblico numero uno, contro cui è umanamente impossibile lottare e che si può – al limite – esorcizzare col silenzio.
Ma avviene che, nell’epoca in cui – come ci avvisano i sociologi e, ormai, anche i teologi (si veda il recente libro di Armando Matteo: Tutti muoiono troppo giovani) – nessuno osa più parlare della morte, paradossalmente si registri quella che potremmo considerare una annichilente prolissità della morte stessa: non si parla di essa, ma essa proferisce a iosa le sue gravi parole e
tutto suona morte attorno a noi,
non solo le nuove malattie incurabili, gli incidenti nell’era delle macchine volanti, le catastrofi in una natura che si ribella alle briglie del progresso, ma anche le mille violenze che gli esseri umani s’infliggono a vicenda, costringendosi a fuggire dalla loro patria, a migrare pericolosamente attraverso i mari, a innalzare muri lungo i confini per rintuzzare i profughi, a trovare in sé la folle ferocia per buttare in acqua donne e bambini, per tagliar gole sulle spiagge deserte o nei bar affollati delle città, e per entrare con i mitra nella hall di un albergo o nel foyer di un teatro, e per farsi esplodere negli aeroporti, sugli autobus, in metropolitana, nei mercati popolari, per abbattere grattacieli trasformando in kamikaze gli ignari viaggiatori in volo su una metropoli apparentemente inespugnabile. E, nondimeno, per sparare sulla folla inerme nella civilissima isoletta d’Utoya o, oggi, contro un gruppo di poliziotti lungo lo stesso viale in cui fu assassinato ieri Kennedy.
Che si tratti di terrorismo organizzato o della pazzia di un solitario, che c’entri una motivazione religiosa o piuttosto politica e persino finanziaria, che siano le scellerate decisioni dei mercanti di corpi o quelle dei demagoghi che governano le nazioni, che il fattaccio accada nel cuore d’Europa o al centro dell’Asia, in Medioriente o nel Nordafrica, persino negli inarrivabili Usa, il risultato non cambia: ne sortisce quella che Francesco ha chiamato “la terza guerra mondiale a pezzi”. Cioè la “guerra d’America”, come ha scritto Vittorio Zucconi su La Repubblica in riferimento alla strage di Dallas, e tante altre guerre, minute ma micidiali, e tutte collegate da un fattore condiviso: la tendenza a reputare gli altri come dei nemici.
Un virus letale, l’inimicizia.
Quasi un dna che tutti ci coviamo dentro, sin dal tempo di Caino. Un fatto “naturale”, come spiegò papa Bergoglio – purtroppo frainteso – dopo Charlie Hebdo: “Se qualcuno dice una parolaccia a mia mamma, s’aspetti un pugno in faccia”. In realtà, il Pontefice, da buon confratello di Michel de Certeau (secondo cui il lavoro dello storico equivale a seppellire i cadaveri, per impedire che imputridiscano al sole e ammorbino l’aria), intendeva smascherare il mostro:
la violenza degli uni è la tempesta che germina dal vento seminato dagli altri.
L’unico antidoto consiste nel personalizzare – e perciò nell’umanizzare – gli altri, per riscoprirci comunque somiglianti, anche noi talvolta inclini al male, così come anche loro pur sempre capaci di un qualche bene. Lo ha suggerito profeticamente Italo Mancini, in una densa pagina di Tornino i volti: “La domanda sul futuro è quella legata alla comunione dei volti, a cosa ci sia da fare e da patire nel vivere faccia a faccia con il volto degli altri. Sarà una strada lunga: ma è già certo che se prevale la faccia mia, allora è confermato il mondo della sopraffazione e della prevaricazione; se invece, come dovrebbe, prevale, per essere umani e cristiani, la faccia dell’altro e il suo diritto senza reciproca, fino alla sostituzione completa di me in lui, allora è un’altra cosa: la coesistenza dei volti, risolta nell’amore del prossimo e nello svuotamento di sé”.
“Mai senza l’altro”, avrebbe detto de Certeau. Francesco, che del gesuita francese è estimatore, il 6 maggio scorso, ricevendo il Premio Carlo Magno, ne ha ripreso la lezione, additando il dialogo come “arma” per debellare l’inimicizia: “La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerare e apprezzare. La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione. Questa cultura del dialogo aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi urge poter realizzare ‘coalizioni’ non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro”.
Guerra sì, ma alla guerra. Armi sì, ma quelle dell’amicizia.