Dopo gli scontri
Lo scorso fine settimana nella capitale Juba vi sono stati nuovi pesanti scontri, con 300 morti, tra cui due caschi blu cinesi. Violenze e migliaia di sfollati. Molti occidentali stanno rimpatriando con voli governativi. Missionari e organizzazioni umanitarie affrontano l’emergenza
E’ un equilibrio molto fragile quello che sta tenendo in piedi il Sud Sudan: il più giovane Stato del pianeta invece di celebrare il 9 luglio i suoi cinque anni di vita dopo 20 anni di guerra con il Sudan, ha visto di nuovo pesanti scontri, centinaia di morti soprattutto tra i soldati, due caschi blu cinesi uccisi, violenze e migliaia di sfollati nella capitale Juba. Al momento è in vigore il cessate il fuoco tra le truppe del presidente Salva Kiir, dell’etnia maggioritaria Dinka, e quelle del vicepresidente Riek Machar, dell’etnia Nuer. Le violenze hanno fatto temere una ripresa della guerra civile scoppiata a metà dicembre del 2013 e terminata con un fragile accordo di pace nell’agosto del 2015. Nel 2013 Machar ritirò le sue truppe da Juba per lanciare un’insurrezione su ampia scala, con decine di migliaia di morti. I due rivali si trovano, paradossalmente, a decidere insieme i destini del Paese, all’interno di un governo di coalizione frutto degli accordi di pace, con il sostegno della comunità internazionale.
Quattro giorni di paura e ansia. La scintilla si è accesa la sera del 7 luglio, con l’uccisione di alcuni soldati governativi ad un check point. Da quel momento le due truppe contrapposte sono sfuggite al controllo dei rispettivi responsabili: gli scontri sono iniziati proprio davanti al palazzo presidenziale, dove il governo era riunito per una conferenza stampa. Sono stati quattro giorni di paura e ansia, con spari di cannoni e mitragliatrici in strada, carri armati, elicotteri, persone che fuggivano a cercare riparo nei campi per sfollati allestiti dall’Onu o nelle chiese. La missione salesiana di Gumbo sta dando riparo oltre 8.000 sfollati, fornendo cibo e acqua e aprendo le aule della scuola e della chiesa, grazie alla presenza di molti volontari. Anche Medici senza frontiere sta rispondendo ai bisogni medici provocati dagli ultimi scontri con cliniche mobili nella chiesa di Santa Teresa a Juba, dove si sono rifugiate 2.500 persone e nei campi Gudele 1 e Gudele 2, con 3.000 sfollati. Sono stati trattati 115 pazienti, tra cui 82 bambini. Molti i feriti in fuga dalle violenze, anche perché i combattimenti si stanno estendendo anche Wau e Leer.
Ong riducono il personale ma c’è chi rimane. Appena riaperto l’aeroporto i governi occidentali, tra cui Italia e Usa, stanno evacuando i connazionali. Molte ong stanno lasciando il Paese, o riducono all’essenziale il personale. Tra quelli che hanno deciso di non partire c’è l’organizzazione di ispirazione cattolica Medici con l’Africa-Cuamm, presente in Sud Sudan con tre ospedali e 81 strutture sanitarie sparse in tutto il Paese, dove sono impiegati 15 italiani, 39 africani e 650 sud sudanesi. A Juba è presente uno staff che coordina da un punto di vista logistico tutte le attività. Come da protocollo, le attività sono entrate nella cosiddetta fase di “ibernazione”. Hanno scorte di cibo e carburante, ma la corrente e il gasolio sono razionate. “Sono stati giorni difficili, di grande ansia – racconta da Juba Valerio Granello, rappresentante Paese del Cuamm -. Siamo ancora chiusi in casa. Anche se la situazione sembra più tranquilla non si può uscire se non con la scorta. Ora la città è deserta ma non sappiamo se il cessate il fuoco reggerà, per cui è meglio prendere le dovute accortezze”. Gli operatori umanitari confidano nell’intervento dell’Igad, l’istituzione internazionale che gestisce il processo di pace. “Speriamo che i negoziatori riescano a trovare un accordo – auspica – ma certo l’equilibrio è fragilissimo e totalmente supportato dall’esterno: stanno cercando di rimettere insieme le due anime di un Paese, che hanno un risvolto etnico. Ma le divisioni sono molto accentuate e le tensioni sempre latenti. E’ necessaria una forte volontà politica delle parti in gioco”.
Lo scenario. Ad alimentare le rivolte delle truppe fedeli al vicepresidente Machar, secondo alcuni, c’è anche il Sudan, che non ha mai accettato completamente la secessione dalla ricca regione petrolifera del Sud Sudan, che produce oltre mezzo milione di barili di greggio al giorno. Un Paese ricchissimo di risorse e terre agricole (una volta era il granaio dell’Africa, oggi importa l’80% del cibo), che però è stato messo in ginocchio dalla guerra civile, dalla siccità che ha provocato la carestia e dal drastico calo del prezzo del petrolio. Oltre 1 milione e 600 milioni di persone sono sfollati interni e vivono di assistenza. Il 90% della popolazione non ha cibo a sufficienza. La Francia sfrutta le miniere d’oro e altri minerali, mentre la Cina si sta appropriando di terreni coltivabili con il land-grabbing. “La svalutazione della moneta locale ha avuto un impatto enorme sulla popolazione, provocando ancora più povertà – spiega Granello -. C’è tanta denutrizione, i bisogni sono enormi, anche dal punto di vista sanitario. Purtroppo c’è una totale dipendenza dagli aiuti delle organizzazioni umanitarie e dei donatori internazionali, e questo crea un meccanismo nocivo, che non aiuta a risollevare le sorti del Paese”.
Disatteso il messaggio dei vescovi. Nei giorni precedenti i vescovi del Sud Sudan avevano lanciato un messaggio di speranza e incoraggiamento per il futuro, che però sembra essere stato disatteso. Caritas italiana, che sostiene da tempo Caritas Sud Sudan nell’assistenza agli sfollati, appoggia anche strutture sanitarie, progetti rurali, iniziative di riconciliazione e attività educative portate avanti da missionari, ong e realtà locali. Appena pubblicato, un dettagliato dossier a cinque anni dall’indipendenza.