Formazione del Sae

Il nuovo ecumenismo vive di relazioni buone e di mutua affidabilità

Marianita Montresor, presidente del Segretariato attività ecumeniche, spiega la scelta di Assisi: “Un approdo, simbolicamente importante. Dice la tensione verso un ecumenismo che abbia il coraggio di vivere il dialogo in profondità, ma soprattutto in spirito di povertà, come Francesco… Inoltre, Assisi è la città dove si è tenuto il primo grande incontro interreligioso di preghiera per la pace”

Camminare verso un nuovo ecumenismo è possibile? Di questo si è parlato nella 52ª sessione di formazione ecumenica, promossa dal Sae (Segretariato attività ecumeniche) ad Assisi, dal 26 luglio al 1° agosto. Alla presidente del Sae, Marianita Montresor, abbiamo chiesto di stilare un bilancio della settimana.

In che senso abbiamo bisogno di un “nuovo” ecumenismo?
“L’espressione potrebbe risultare ambigua perché, da un certo punto di vista, non c’è un nuovo ecumenismo: c’è un unico ecumenismo, vecchio e nuovo insieme, quello che si fonda sulla preghiera di Gesù nel Getsemani. Ma è nuovo perché crediamo che debba essere animato da una forza che lo rinnova, quella dello Spirito Santo, che apre gli occhi della mente e del cuore e spinge sempre a un ‘oltre’. La novità consiste anche nel fatto, a mio avviso, che si comincia a comprendere che l’ecumenismo non può più essere episodico, limitato alle ricorrenze ufficiali, come la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, e non può essere periferico al vissuto di fede: deve andare in profondità e diventare mentalità tra i cristiani, cioè un modo di credere e di vivere nella comune, umile sottomissione alla Parola e nella condivisione dei doni dello Spirito. Significa anche riscoprire la nostra vera identità di Chiesa, che non è riducibile alla sua struttura, cioè alla visibilità, ma si può comprendere solo partendo dall’incarnazione. Infine, un nuovo ecumenismo deve saper declinare in modo sempre più attento il rapporto con i fratelli ebrei, nella consapevolezza del legame che ci unisce, respingendo definitivamente le derive dell’antigiudaismo e di una certa teologia della sostituzione, che non raramente ancora affiorano nel linguaggio e nella mentalità dei cristiani”.

A che punto siamo del cammino?
“Non credo si possa definirlo, perché il traguardo è l’unità, nel modo e nel tempo che Dio vorrà, come ci ricordava l’abate Paul Couturier agli inizi del movimento ecumenico: si tratta, allora, di continuare a camminare con fiducia nella direzione che lo Spirito ci indica, senza fare bilanci o pronostici, perché la meta la conosce solo il Signore”.

Quali sono le maggiori difficoltà per intraprendere questo cammino di novità?
“Direi il fatto che non abbiamo ancora una consapevolezza di cuore che i cristiani altri, sono cristiani… come noi! Così tendiamo a restare chiusi nel guscio della nostra tradizione confessionale, perdendo la possibilità di godere e di arricchirci dei doni di Dio che sono elargiti a ciascuno, quindi anche a ciascuna Chiesa, per l’utilità di tutti. I passi sono lenti perché per troppi secoli abbiamo proceduto, di fatto, in una sorta di isolamento effettivo, nella convinzione di ciascuna Chiesa di possedere, essa sola, la verità di Cristo e del Vangelo e che gli altri fossero gli eretici. Non di rado, poi, l’ecumenismo è ancora visto come un movimento per ‘iniziati’ che trattano questioni dottrinali, anziché riguardare tutti i credenti”.

Nuova anche la sede della sessione: Assisi…
“La scelta di tenere ad Assisi la sessione 2015, e speriamo anche le prossime, non è stata dettata solo dalla necessità di trovare una collocazione più centrale rispetto alla precedente, il Veneto: in un certo senso è un approdo, simbolicamente importante. Dice la tensione verso un ecumenismo che abbia il coraggio di vivere il dialogo in profondità, ma soprattutto in spirito di povertà, cioè concentrandosi sull’essenziale, come Francesco ha insegnato con la sua vita, seguendo ‘nudo un Cristo nudo’. Inoltre, Assisi è la città dove si è tenuto il primo grande incontro interreligioso di preghiera per la pace: in questo tempo, in cui conflitti talora devastanti dividono le popolazioni, non possiamo dimenticare che il fine ultimo dell’ecumenismo è l’unità del genere umano. Assisi ci aiuta a fare memoria di tutto ciò”.

La spiritualità ecumenica può diventare uno stile di vita?
“Direi piuttosto che deve diventarlo, perché non è altro che la spiritualità cristiana tout-court, come ricordava spesso il teologo Luigi Sartori. E mi pare che siano fondamentalmente questi gli aspetti della spiritualità ecumenica: coltivare un animo povero e coltivare lo spirito di dialogo; sapersi non autosufficienti, cercando di andare incontro all’altro facendosi ospiti, nel duplice senso dell’ospitante e dell’ospitato, ma sapendo anche rinunciare, se necessario, alla reciprocità. La spiritualità ecumenica inaugura uno stile di vita autenticamente fraterno e mite, che rompe il cerchio di quella violenza che purtroppo ha sempre attraversato le nostre Chiese”.

Con Papa Francesco si respira una stagione “nuova” per l’ecumenismo?
“Sì, certamente. Papa Francesco coltiva un ecumenismo delle relazioni in cui l’amicizia offre il contesto in cui collocare il dialogo teologico: mi riferisco allo scambio con il patriarca ecumenico Bartolomeo I, ma anche agli incontri informali, come la visita al pastore pentecostale Traettino. Un punto culminante la recente visita alla Chiesa valdese di Torino, anche per l’accoglienza ricevuta, cordiale e non formale. Mi pare si stia aprendo la stagione della diversità riconciliata dallo Spirito Santo e della mutua affidabilità, raccomandata dal Consiglio ecumenico delle Chiese. È questo il senso di quanto Papa Francesco scrive nell’Evangelii Gaudium: ‘Affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze e guardare prima di tutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio'”.