Un giornalista in Siria

Aleppo, reporter scoppia a piangere. I cinici non sono adatti a questo mestiere. Lacrime vere, contro l’anestesia dei cuori

Un giornalista siriano scoppia in lacrime in diretta televisiva, durante il suo reportage per l’emittente araba “Al Jazeera”, mentre parla dei bambini che muoiono di fame ad Aleppo. “Il cinico non è adatto a questo mestiere”, diceva il grande reporter polacco Riszard Kapuscinski. E’ bella questa testimonianza perché oggi il rischio che gli occhi dei giornalisti (e dei lettori e telespettatori) si prosciughino anche di lacrime è alto. Bisogna provare empatia, umanità, partecipare alle storie che si ha il privilegio di incontrare, usare i sentimenti e l’intuizione, oltre all’intelletto. Altrimenti la descrizione del presente diventa arida e distante, rende numeri i volti, conduce all’indifferenza e all’anestesia i cuori. E scegliere di stare dalla parte dei più deboli.

Un giornalista siriano scoppia in lacrime in diretta televisiva, durante il suo reportage per l’emittente araba “Al Jazeera”, mentre parla dei bambini che muoiono di fame ad Aleppo . “Si dice e si ripete che bisogna riportare ciò che accade in Siria con oggettività”, dice al microfono Milad Fadel, mentre descrive la sofferenza del suo popolo ad Aleppo est, sotto assedio da quasi un mese, con le forze di Bashar al-Assad che impediscono l’arrivo degli aiuti umanitari, “ma di fronte a questo disastro umanitario non possiamo far altro che sostenere questi neonati e bambini che vivono sotto assedio, che non hanno più nulla da mangiare. Non si può non stare dalla parte di queste 300mila persone che cercano delle semplici cure mediche e corridoi umanitari. Non possiamo fare altro che sperare di non rivedere ciò che abbiamo visto a Madaya e a Ghouta. Dei bambini affamati che muoiono di fame”.

Ripensando alle immagini di quei bambini, Milal Fadel non ce la fa a trattenere le lacrime; ma perché dovrebbe? Fa notizia ciò che non dovrebbe fare notizia.

“Il cinico non è adatto a questo mestiere”, diceva il grande reporter polacco Riszard Kapuscinski.

Stando dentro alle guerre e alle povertà di Africa, Asia e delle varie periferie del mondo ne avrà versate tante di lacrime, mentre osservava, ascoltava le persone, scriveva. Il suo era un modello di giornalismo che oggi non esiste più: quello che poteva permettere ad una qualsiasi testata di media grandezza – Kapuscinsky lavorava per l’agenzia di stampa polacca Pap – di mandare i propri inviati a seguire le grandi emergenze della storia, ma anche a scovare le storie non conosciute, dimenticate, quelle degli ultimi che notoriamente non hanno voce. Le sue parole sulla missione nobile della professione hanno fatto scuola e breccia in una generazione di giornalisti specializzata nei temi sociali e umanitari. Giornalisti che sono stati via via costretti a togliere la polvere dalle suole delle scarpe che consumavano tra la gente e sulle strade del mondo, per indolenzire le dita sulla tastiera e prosciugare gli occhi davanti ad uno schermo di computer.

Il rischio che gli occhi dei giornalisti (e dei lettori) si prosciughino anche di lacrime è alto.

Perché la realtà della cronaca, quella che diventerà poi storia, non è più vissuta, condivisa. Perchè un vero giornalista, nel senso più alto del termine e secondo i grandi maestri, è quello capace di provare empatia, umanità, di partecipare alle storie che racconta, le stesse che ha avuto il privilegio di incontrare proprio in virtù del proprio lavoro.

E’ colui o colei che usa i sentimenti e l’intuizione, oltre all’intelletto. Altrimenti la descrizione del presente diventa arida e distante, rende numeri i volti, conduce all’indifferenza e all’anestesia i cuori.

Sia quelli di chi scrive da una redazione o fa telecronache da uno studio asfittico. Sia di chi, dall’altra parte, legge distrattamente dalla app sul telefonino o guarda la tv sgranocchiando patatine. E il risultato si vede chiaramente, oggi. Purtroppo.

“Non si può non stare dalla parte di queste 300mila persone che cercano delle semplici cure mediche e corridoi umanitari”. Questo è l’altro particolare importante nel messaggio che il giornalista siriano sta dando inconsapevolmente al mondo – il video sta diventando virale sui social – con le sue lacrime.

Scegliere da che parte stare.

La tentazione più ovvia del giornalismo, per motivi di carriera o opportunismo, o anche per semplice evidenza dettata dalla linea editoriale, è quella di corteggiare sempre il Potere, di raccontarne le virtù nascondendo i vizi, sacrificando a volte la libertà critica del pensiero (compresa la libertà di andare oltre i propri giudizi e pregiudizi) e l’obiettività dei fatti. Il metro di misura per la scelta, secondo un altro grande della vecchia scuola, Tiziano Terzani, è invece semplice: quando si trovava a raccontare una storia (in un conflitto, una disputa, una polemica) in cui c’erano degli oppressi e degli oppressori, sceglieva sempre di stare dalla parte dei più deboli. Perché il Potere ha già i suoi mezzi per difendersi da sé.