Dialogo
Si è conclusa, nei giorni scorsi, la 53ª Sessione estiva del Sae (Segretariato attività ecumeniche). “Quello che abbiamo veduto e udito noi l’annunciamo. Tradizione, riforma e profezia nelle Chiese” il tema al centro del confronto. Alla presidente del Sae, Marianita Montresor, abbiamo chiesto un bilancio e anche uno sguardo alle sfide che aspettano oggi il cammino ecumenico
“Quello che abbiamo veduto e udito noi l’annunciamo. Tradizione, riforma e profezia nelle Chiese”. Questo il tema affrontato nella Sessione 2016 del Sae (Segretariato attività ecumeniche), che si è svolta ad Assisi, nei giorni scorsi. Alla presidente del Sae, Marianita Montresor, abbiamo chiesto com’è andata e anche uno sguardo sul cammino ecumenico.
Che bilancio possiamo fare?
Il tema della Sessione ha visto cristiani di diverse confessioni (cattolici, luterani, valdesi, battisti, metodisti e ortodossi) interrogarsi sul loro essere “Chiesa” nonostante le divisioni. In passato, teologicamente, i tre concetti “tradizione, riforma e profezia” sono stati spesso trattati come aree separate anche sul piano temporale, rispettivamente: passato, presente, futuro. Dobbiamo invece prendere atto della loro compresenza. Ciò vale anche per il dialogo ecumenico. I tre concetti costituiscono uno schema utile per un dialogo costruttivo sulle diversità tra le Chiese. Basti pensare, nel dialogo tra cattolici e protestanti, al “Consenso sulla dottrina della giustificazione” del 1999 o, in vista del prossimo anno, ai documenti sulla comune commemorazione dei 500 anni della Riforma di Lutero. Sul versante ortodosso, al fine di sottolineare continuità anziché la rottura, si preferisce usare invece di “riforma” l’espressione “sviluppo della tradizione”. Le tre parole – tradizione, riforma e profezia – costituiscono in definitiva un’unica vocazione rivolta a tutti a non spegnere la continua azione umanizzante dello Spirito.
Durante la Sessione si è parlato di attaccamento alle radici e aperture al futuro: che prospettive per le nuove generazioni in ambito ecumenico?
Le nuove generazioni stanno crescendo in un momento storico ricco di contraddizioni. Da un lato, il cammino ecumenico, iniziato nei primi anni del XX secolo, le spinge a considerare il dialogo fra i cristiani come un dato acquisito trascurandone la delicatezza: dall’altro, la propensione all’indifferenza in ambito religioso sta provocando quasi un “salto generazionale” nella trasmissione della fede.
La testimonianza diventa quindi l’unica vera modalità di comunicazione.
La Sessione del Sae ha dato ampio rilievo, in ambito ebraico e cristiano, alla trasmissione dell’annuncio e della testimonianza della fede tra le generazioni. Elemento comune è stato il senso di continuità interiore tra ciò che si è e quanto ci è stato trasmesso: i racconti, gli atteggiamenti, i sapori, le abitudini che si apprendono in famiglia e nelle comunità sono il patrimonio che ci definisce come esseri umani in un divenire ricco sia di novità sia di memorie. Ma anche i gesti concreti devono fare scuola: per questo motivo i proventi delle collette raccolte nel corso delle varie liturgie sono stati destinati al progetto interconfessionale dei corridoi umanitari, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Federazione delle Chiese evangeliche.
Vi siete riuniti per il secondo anno ad Assisi, che quest’anno ricorda i 30 anni dal primo incontro interreligioso voluto da Giovanni Paolo II: quanto quella profezia del pregare in comune oggi è attuale?
Stiamo vivendo una stagione molto difficile sul piano internazionale e la strumentalizzazione delle religioni ne è il risvolto più drammatico. Accade quindi che, accanto a gesti di grande accoglienza nei confronti degli immigrati, si assista alle azioni blasfeme dei predicatori dell’odio e della violenza.
La preghiera di Assisi di trent’anni fa fu una vera intuizione profetica poiché aveva come oggetto “la sfida della pace”.
Dobbiamo seminare per il futuro, con uno sguardo lungo e una seria capacità di analisi critica. Il movimento ecumenico ha di fronte a sé la responsabilità di un’azione visibile e concreta, orientata alla pace e alla riconciliazione: solo praticando la comunione fraterna all’interno delle Chiese si sarà credibili nell’accogliere i credenti di altre fedi e nel gettare ponti verso i non credenti.
Il Papa ha detto nel viaggio in Armenia che il dialogo tra i cristiani mostra “all’intera società una concreta via percorribile per armonizzare i conflitti che lacerano la vita civile”…
Con queste parole Papa Francesco ha evidenziato la natura più profonda dell’ecumenismo. La preghiera di Gesù al Padre “che siano una cosa sola, affinché il mondo creda” sottolinea che i cristiani saranno testimoni credibili del Vangelo e del suo messaggio di pace solo se uniti tra loro. Non a caso il Concilio Vaticano II dichiarò che le divisioni tra i cristiani sono “uno scandalo” di fronte al mondo.
Il Papa ha anche detto che lo spirito ecumenico impedisce la strumentalizzazione e manipolazione della fede. È d’accordo?
L’ecumenismo aiuta i cristiani a riconoscersi come fratelli e sorelle in Cristo: ponendo Lui al centro delle nostre vite e delle nostre comunità impariamo a comprendere quali sono le priorità e a distinguere gli aspetti meno essenziali delle nostre tradizioni. E questo poi comporta dar rilievo alla dignità di ogni essere umano, a prescindere dalla sua fede e dalla sua cultura.
Il cardinale Kurt Koch definisce “diplomazia dell’incontro” la capacità del Papa di abbattere muri storici anche in ambito ecumenico nel dialogo tra le Chiese. Quest’anno dal viaggio a Lesbo con Bartolomeo I all’ incontro con Kirill a Cuba, fino al prossimo viaggio a Lund in Svezia, Francesco sta compiendo importanti gesti ecumenici. Tutto ciò ha delle ricadute anche nelle Chiese? Cosa si aspetta nei prossimi anni sul fronte del cammino ecumenico?
Per quanto suggestivo, parlare di “diplomazia dell’incontro” è forse riduttivo. I gesti di Papa Francesco si pongono in continuità con quelli dei suoi predecessori, fin da Giovanni XXIII che, con il Vaticano II, diede inizio a un nuovo modo di rapportarsi agli altri cristiani. Dopo il Concilio tutti i Papi hanno portato avanti, ciascuno con il proprio stile, questa consuetudine di gesti di apertura verso gli altri cristiani che, da parte loro, hanno dimostrato un grande desiderio di accoglienza e disponibilità al dialogo. Gli atti ufficiali hanno una grande risonanza mediatica, rischiano però di esaurirsi se non si calano nel vissuto delle chiese. La sfida dei nostri giorni è far sì che i frutti del dialogo e i risultati delle consultazioni teologiche siano recepiti nel tessuto connettivo delle nostre comunità e diventino mentalità, modo di vivere la fede.