La parola ai cappellani
Il 70% dei detenuti torna in prigione se non ha opportunità di lavoro e di formazione. Non solo: sono soprattutto i più poveri ed emarginati a stare più tempo in carcere. La denuncia di due quotidiani nazionali commentati da don Virgilio Balducchi (ispettore generale dei cappellani delle carceri), don Antonio Loi (cappellano a Opera, Milano), don Sandro Spriano (cappellano a Rebibbia, Roma), don Franco Esposito (cappellano a Poggioreale, Napoli)
In Italia in prigione possono anche andarci le persone più o meno importanti o che appartengono a una certa classe sociale, ma ci restano poco, al contrario dei poveri. Non solo: sette detenuti su dieci tornano in carcere. Sono le denunce contenute in due articoli pubblicati negli ultimi giorni da due quotidiani nazionali. Il sistema carcere, dunque, nel nostro Paese proprio non funziona? Abbiamo raccolto le reazioni di alcuni cappellani.
Disuguaglianze. Per don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, “è vero che in carcere è molto facile che i poveri ci restino più a lungo. Parliamo degli immigrati, che non hanno nessuno e neppure una casa, e dei tossicodipendenti più disperati, delle persone povere e malate. Chi ha le possibilità economiche può difendersi meglio nel processo e ha maggiori alternative fuori dal carcere.
Questo fa credere che la giustizia sia diseguale
e scoraggia chi deve intraprendere dei procedimenti, anche in campo civile, ma ha meno possibilità economiche”. Rispetto alla recidiva, don Balducchi commenta: “Sono i dati ufficiali, che mostrano che chi sconta la pena solo in carcere, senza avere opportunità di professionalizzazione o di lavoro continuativo, recidiva di più. Al contrario chi usufruisce delle pene alternative e di programmi esterni, più difficilmente compie nuovi reati. Perciò, la giustizia italiana dovrebbe utilizzare di meno la pena in carcere e di più le pene sul territorio, con responsabilità, creando posti di lavoro e luoghi di accoglienza”.
Offrire opportunità. Concorda don Antonio Loi, cappellano nel carcere di Opera, a Milano: “Se in carcere si tengono le persone a non fare niente, continuano a non fare niente. Invece,
se si offrono opportunità di lavoro il discorso cambia.
Ricordo un libro molto bello del cardinale Martini, ‘Ma questa è giustizia?’, in cui scriveva che bisogna educare le persone a riappropriarsi del valore del tempo, dei soldi, di tante piccole cose della vita, che hanno un valore grande. Vanno date più opportunità, con un po’ meno ristrettezze, e vanno sviluppate anche opportunità culturali. A Opera, ad esempio, ci sono diverse attività di lettura creativa, che aiutano le persone a rientrare in se stesse, e il laboratorio di liuteria. Sono importanti anche le attività di tipo teatrale perché permettono di mettersi in gioco fino ad arrivare alla domanda: quello che ho fatto fino adesso è vero o falso?”. Per don Antonio, “l’opportunità di lavoro per uno che nella vita ha sempre lavorato e magari ha fatto una ‘fesseria’ può riaprire una speranza, anche se non farà più quello che faceva prima. Chi invece ha vissuto sempre di criminalità può scoprire il valore del lavoro”. Non a caso, “tra chi usufruisce delle pene alternative al carcere la recidiva è del 19%. E questo dice che forse il carcere non funziona”. Ma, ammette, “non so se siamo pronti a percorrere nuove strade”.
Porte chiuse. “Quando il detenuto esce di galera – denuncia don Sandro Spriano, cappello a Rebibbia, a Roma – è privato di ogni diritto nell’opinione della maggioranza dei cittadini. Tutte le porte vengono chiuse, a cominciare da quelle di noi cristiani. Lo dico anche perché attualmente il più grande amico dei detenuti è Papa Francesco. Mentre la realtà intorno è molto diversa: tutti abbiamo paura di chi è stato in carcere. La recidiva non è soprattutto la capacità di commettere altri reati, ma è l’uscita dal carcere di un povero, che vi era già entrato povero e torna fuori più povero di prima. E deve mangiare, non sa dove dormire, non sa dove poter fare qualcosa della sua vita. Per questo tornano in carcere. Non ci torna facilmente chi trova accoglienza e un lavoro”. In carcere, poi, “non ci sono quelli che detengono un potere di qualche tipo, perché con i soldi hanno la capacità di avere avvocati abili che allungano all’infinito i processi, fino a volte alla prescrizione. La maggioranza di chi sta in carcere è effettivamente povera, ma non solo di soldi: ci sono i malati di mente, gli stranieri, le persone che non hanno una famiglia.
Sono quei nuovi poveri che la nostra società non riesce ad accogliere in alcun modo”.
Opera-segno. “L’alto tasso di recidiva è conseguenza di un carcere dove si tengono rinchiuse le persone senza nessun programma serio di reinserimento, di rieducazione. Escono peggiori di come sono entrate. Anche perché vengono private della cosa più importante, gli affetti.
Nelle nostre carceri c’è zero affetti”,
sottolinea don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale, a Napoli. La diocesi ha voluto realizzare un’opera-segno: “Liberi di volare”, una comunità di accoglienza per detenuti, che vivono lì gli ultimi due-tre anni di detenzione agli arresti domiciliari. “Al momento – ricorda don Franco – ospitiamo dieci detenuti residenziali e quaranta in affido diurno”. Quest’esperienza, avviata quattro anni, dimostra che “la recidiva scende enormemente, fino a meno del 10%, se ci sono opportunità. E questo dovrebbe far interrogare i politici sulla necessità di pensare seriamente a un’alternativa al carcere. Inoltre, un carcerato in un istituto carcerario costa allo Stato oltre 200 euro al giorno, mentre comunità come la nostra non riceve nessuna sovvenzione statale”. Eppure, evidenzia il cappellano, “questa è la risposta seria al problema della recidiva: far vivere ai detenuti esperienze positive per tagliare i ponti con il male, facendo prendere coscienza di quello che si è commesso e il desiderio di un futuro nella legalità”.