Diritti umani
Il governo etiope ha decretato lo stato d’emergenza per sei mesi e il blocco dei social media, in seguito all’ondata di proteste, represse con la forza, nella regione di Oromia. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano almeno 500 vittime, arresti e detenzioni arbitrarie di giornalisti, blogger, oppositori e attivisti dei diritti umani dell’etnia Oromo, ma anche degli Amhara: pur essendo maggioranza subiscono da anni abusi e discriminazioni. Eppure i governi occidentali fanno finta di non vedere, per chiari interessi geo-strategici nel Corno d’Africa
Stanno uscendo in piena luce le violazioni dei diritti umani in Etiopia. Il governo ha decretato lo stato d’emergenza per sei mesi e il blocco dei social media, in seguito all’ondata di proteste, represse con la forza, nella regione di Oromia. Come pure gli arresti e detenzioni arbitrarie di giornalisti, blogger, oppositori e attivisti dei diritti umani dell’etnia Oromo, ma anche degli Amhara, che subiscono da anni abusi e discriminazioni. C’è chi teme un rischio guerra civile. Eppure i governi occidentali stanno in silenzio e fanno finta di non vedere l’instabilità in cui versa il Paese, per chiari interessi geo-strategici nel Corno d’Africa. Anzi, il governo etiope è considerato uno dei partner africani più affidabili per accordi di natura economica, sicurezza e gestione dei flussi migratori. Si è conclusa infatti ieri ad Addis Abeba la visita in Africa della cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha incontrato il premier Hailemariam Desalegn e una delegazione di rappresentanti dell’opposizione. A tema la crisi politica etiope e le migrazioni. La scorsa settimana il presidente dell’Etiopia Mulatu Teshome è stato ricevuto invece al Quirinale, a Palazzo Chigi e al Senato, nonostante l’indignazione della comunità etiope in Italia, circa 8.000 residenti, che a fine settembre aveva manifestato davanti a Montecitorio contro le persecuzioni nella regione di Oromia, una delle più ricche di risorse naturali del Paese, oggetto di tentativi di land grabbing. L’ultimo, grave episodio, risale al 2 ottobre scorso, con decine di persone rimaste uccise durante un raduno religioso nella città di Bishoftu, pochi chilometri a sud della capitale. Le forze di sicurezza avrebbero sparato proiettili e gas lacrimogeni. Molti sono morti durante la fuga, schiacciati dalla folla. In realtà le proteste sono iniziate circa un anno fa, e molte sono represse con la forza. Finora sono stati circa 500 i morti, secondo le organizzazioni per i diritti umani. Proprio in questi giorni un gruppo di sette esperti delle Nazioni Unite ha chiesto un’inchiesta internazionale per far luce sui fatti.
Il contesto. I gruppi etnici Oromo e Amhara, che insieme costituiscono circa i due terzi dei 100 milioni di abitanti (i Tigrini, rappresentati dal partito al potere da 25 anni, il Fronte di liberazione del Tigré, sono il 6%; gli Oromo il 24%), hanno iniziato a protestare in maniera più massiccia dal novembre del 2015: un progetto governativo voleva impossessarsi dei terreni dei contadini nella regione di Oromia, per estendere la capitale Addis Abeba. Il progetto è stato poi abbandonato ma le terre sono sempre a rischio land grabbing (“accaparramento di terre”), anche da parte di aziende straniere. Le manifestazioni hanno poi radici su un comune malcontento delle due etnie, che si sentono oppresse dall’élite tigrina ed emarginati dal punto di vista sociale e politico. Al contrario, chi è al potere dipinge gli Oromo come secessionisti che vogliono attentare contro l’unità e sovranità del Paese e gli Amhara come fanatici e violenti. Il portavoce del governo Getachew Reda ha accusato giorni fa “nemici stranieri” (Eritrea ed Egitto, ma il governo egiziano nega ogni addebito) di essere “direttamente coinvolti nell’armare, finanziare e addestrare bande armate”.
Le denunce delle organizzazioni per i diritti umani. I dossier sull’Etiopia di Amnesty international e Human rights watch denunciano da tempo un uso eccessivo della forza contro manifestanti pacifici, arresti di giornalisti e di membri di partiti dell’opposizione, torture in carcere, esecuzioni extragiudiziali di leader dell’opposizione, limitazioni alla libertà di espressione, anche nei confronti dei media. L’ultimo arrestato è stato il blogger e docente universitario Seyoum Teshome, in carcere dal 1° ottobre per aver commentato sul New York Times il gesto del maratoneta etiope Fefyisa Lilesa alle Olimpiadi di Rio: Lilesa aveva incrociato le braccia sulla testa al momento di attraversare il traguardo, in solidarietà con il popolo Oromo, e poi ha chiesto asilo negli Usa. Secondo Human rights watch “molte delle persone arrestate o uccise erano ragazzi minori di 18 anni”, studenti delle scuole primarie e secondarie, “insegnanti, musicisti, oppositori politici”, molti dei quali detenuti “senza accuse e senza accesso a consulenze legali o a incontri con i familiari”. Alcuni testimoni hanno descritto negli ultimi tempi “un brutale giro di vite”, una violenza senza precedenti da parte delle forze dell’ordine. Una coalizione di organizzazioni non governative americane ha inviato a settembre una lettera al Consiglio per i diritti umani dell’Onu sull’aggravarsi della crisi nella regione di Oromia e Amhara, chiedendo una indagine imparziale, trasparente ed indipendente. Ma il governo rifiuta dal 2007 l’ingresso di un osservatore dell’Onu.
In vista un accordo con l’Etiopia sui rimpatri? Tutto ciò nella quasi totale indifferenza dei governi occidentali. Soprattutto perché l’Etiopia, che già ospita sul suo territorio 800.000 profughi, può far comodo nelle strategie di esternalizzazione delle frontiere per fermare il flusso di migranti verso l’Europa. La settimana scorsa, durante un convegno organizzato dalla Cisl a Roma, il Ministro per gli affari esteri Paolo Gentiloni ha fatto capire, tra le righe, l’intenzione di fare accordi con l’Etiopia per “rimpatriare chi non ha diritto all’asilo”. Si tratterebbe di accordi tra polizie, definiti “Memorandum of understanding”, su cui le organizzazioni che si occupano di migranti riunite nel Tavolo asilo stanno vigilando, dopo l’increscioso episodio del 24 agosto scorso con il rimpatrio di massa di 48 sudanesi, violando il principio di “non refoulement” previsto dal diritto internazionale, secondo il quale non si può rimandare in patria chi fugge da un Paese in cui rischia la vita. “L’accordo con l’Etiopia è nell’aria – conferma Oliviero Forti, responsabile dell’area immigrazione di Caritas italiana -. Bisogna verificare quali saranno i termini, per evitare gli stessi errori fatti con il Sudan. Capire, ad esempio, se l’accordo riguarda anche cittadini di Paesi terzi arrivati in Etiopia e poi giunti in Italia. Se chi è rimandato in Etiopia appartiene all’etnia Oromo perseguitata oppure se sono cittadini etiopi entrati in maniera irregolare. E’ una questione delicata che va vista nei dettagli, facendo una selezione sulla base dei rischi effettivi che corrono le persone, nei limiti del rispetto dei diritti umani e della possibilità, che deve essere data a tutti, di fare richiesta d’asilo”.