Guerra in Siria
Dopo oltre 4 anni di assedio, Aleppo prova a rialzare la testa. Non si tratta solo di riedificare la città, ma di rimettere insieme anche i pezzi di una società colpita con violenza anche nella sua millenaria tradizione di tolleranza e convivenza. Una sfida difficile che vede la comunità cristiana impegnata in prima linea per vincerla. Con le armi pacifiche della solidarietà concreta e dell’amicizia. Le testimonianze dell’arcivescovo greco-melkita Jean-Clement Jeanbart,e del gesuita Sami Hallak, del Jesuit Refugee Service (Jrs) di Al-Azizieh (Aleppo). La speranza nel vertice di Ginevra del 20 febbraio per mettere a tacere le armi una volta per tutte e per ridare ai siriani le chiavi del loro futuro
Aleppo prova a rialzarsi dopo oltre 4 anni di guerra. La conquista dei quartieri orientali, o almeno di quel che resta, da parte delle forze fedeli al presidente Assad, sostenute dall’aviazione russa, dai volontari iraniani e da quelli libanesi di Hezbollah, ha posto fine ad un assedio iniziato a luglio del 2012. Oggi si contano i danni. Enormi. Case, strade, ospedali, mercati, fabbriche, infrastrutture e scuole devastate. La stessa grande moschea degli Omayyadi, simbolo della bellezza di un tempo, è ormai un cumulo di macerie tra le quali si muovono i tecnici russi che coordinano le operazioni di sminamento. Nonostante ciò la popolazione cerca di tornare a una parvenza di normalità, grazie anche alla riapertura di 23 scuole nella zona Est, e la conseguente ripresa delle lezioni per 6.500 alunni. Dopo quattro anni, poi, è tornato a sferragliare un treno pendolare in città e, nello stadio, si è giocata una partita ufficiale davanti a circa 5000 spettatori. La speranza della popolazione civile è che la tregua tenga e si ricostruisca tutto come era prima, non solo le case ma anche l’unità sociale. La riconciliazione nazionale: forse è proprio questa la grande sfida che attende la Siria e Aleppo, quando la guerra non è ancora finita. E così in attesa di conoscere l’esito dei Colloqui di pace di Ginevra, previsti il 20 febbraio, le truppe siriane si sono avvicinate al territorio controllato dall’Isis portandosi a ridosso di al Bab, l’ultima roccaforte in mano al Califfo nella provincia di Aleppo, considerata strategica da quasi tutte le parti in guerra.
Sfida da vincere. La sfida della riconciliazione non spaventa la comunità cristiana della città che continua a fare il possibile per aiutare tutta la popolazione, alimentando la convivenza, l’unico mezzo valido per rimettere insieme i pezzi di una società colpita anche nel cuore. Monsignor Jean-Clement Jeanbart, arcivescovo greco-melkita di Aleppo è ottimista ma non si nasconde le difficoltà. “Non si sentono più tanti razzi e bombe. La vita in città resta difficile – afferma – mancano acqua, elettricità e lavoro.
Ma siamo vivi, la città è libera.
Le scuole stanno riaprendo. Come comunità cristiana aiutiamo tante famiglie a fare fronte ai bisogni primari come il cibo e elettricità che acquistiamo dai generatori sulle strade. Abbiamo dei furgoncini che portano cisterne di acqua in giro. Fino ad oggi abbiamo risistemato 300 case colpite dalla guerra e aiutato 80 giovani ad avviare una attività commerciale con dei prestiti a fondo perduto. Si sta lavorando per riattivare strade e comunicazioni ferroviarie. Sono riprese anche le partite di calcio e di basket”. Lo sguardo è rivolto al presente ma anche agli imminenti Colloqui di pace di Ginevra.
“Sono ottimista” dice l’arcivescovo che spera “la riconciliazione tra Russia e Stati Uniti sarà positiva non solo per la Siria ma per il mondo intero. I cambi nella politica turca, russa e statunitense possono essere un buon viatico verso un negoziato di pace.
Da parte mia sono sempre più convinto che quando i mercenari stranieri saranno usciti dal nostro Paese i siriani potranno far rivivere la loro grande tradizione di convivenza e di dialogo.
La Siria deve restare un Paese sovrano e non in balia della potenza di turno”.
Voglia di rinascere. La voglia di rinascere della città martire siriana è testimoniata anche dal padre gesuita Sami Hallak, responsabile del centro del Jesuit Refugee Service (Jrs) di Al-Azizieh, ad Aleppo. Da sempre in prima fila nel portare aiuto alla popolazione cristiana e non, il religioso parla di “popolazione contenta sebbene priva di lavoro, di luce e di acqua. La situazione è peggiore ad Aleppo Est teatro di gravi scontri e bombardamenti. I quartieri sono distrutti e molti dei loro abitanti in questi anni hanno trovato rifugio nelle parti occidentali. Il loro rientro nelle rispettive zone di provenienza è cominciato solo dopo che le forze governative hanno ripreso il controllo della parte Est. Ma tutto si muove lentamente perché non ci sono più servizi di base, oltre a cibo, luce e acqua. Manca anche la polizia, la sicurezza non è garantita. La maggior parte delle case è stata distrutta, alcune rubate da ribelli e combattenti. Per rimetterle a posto serve tanto denaro. Difficile pensare ad un ritorno adesso, forse più avanti, magari a maggio, quando le macerie saranno state rimosse e le scuole avranno terminato le lezioni. Fino a quel periodo gli sfollati di Aleppo est non si muoveranno dalla parte Ovest”. In questa fase l’attenzione del Jrs si sta rivolgendo a tante famiglie cadute in estrema povertà. Per queste, spiega il gesuita, “stiamo allestendo dei piccoli centri di aiuto vicino ai check point dove ci sono militari armati. Questo scoraggia i malintenzionati che vogliono rubare cibo e acqua destinati ai più bisognosi. Lo stesso stiamo cercando di fare ad Aleppo Est, con dei punti di distribuzione di pasti caldi perché la popolazione non ha nulla in casa”.
Si lavora sperando sempre in una soluzione di pace. Ginevra? “Vedremo. Ciò che conta è mettere a tacere le armi”. La sovranità del Paese? “Ora come ora è l’ultima preoccupazione. Lo dico da cittadino siriano che ha sofferto tanto per la guerra. I siriani vogliono vivere in pace e con dignità”.