Cultura
Non sarà davvero la capitale della cultura se non imparerà a essere una capitale del coraggio di sperare
La notizia che Palermo è stata scelta come capitale italiana della cultura per il 2018 ha lasciato di sasso i palermitani, abituati a considerare la loro città cronicamente depressa e a disperare, loro per primi, delle sue possibilità di riscatto. Per una volta, gli altri del “continente” stanno puntando su un centro che finora era stato menzionato soprattutto per il problema della mafia e, quando andava bene, per i martiri dell’anti-mafia, valorizzandolo non per le sue ferite, ma per le sue risorse. Non c’è più spazio per quel vittimismo che nei palermitani è un vizio atavico. Anche se qualcuno, pessimisticamente, ha già pronosticato che molte energie preziose saranno sprecate nel discutere sui “veri” motivi che stanno dietro questa nomina, invece che sul modo di onorarla.
Perché – è stato giustamente osservato – non si tratta tanto di un premio, quanto di una sfida. A Palermo, ma, più precisamente, ai palermitani. Che la città sia, dal punto di vista monumentale e artistico, all’altezza del titolo di “capitale” non ci sono dubbi. Anche perché capitale è stata davvero, sia pure in un passato ormai lontano. E ancora le sue chiese e i suoi palazzi portano inscritte nelle loro architetture le tracce di una storia in cui le grandi civiltà greca, araba e latina furono raccolte sotto lo scettro dei re normanni in un grande dialogo interculturale, esempio anche oggi di un pluralismo rispettoso delle differenze e capace di trasformare i conflitti in reciproco arricchimento.
Fu il tempo in cui il cristiano sovrano normanno Ruggero aveva una guardia del corpo formata esclusivamente da islamici, un primo ministro greco e una corte dove le lingue ufficiali erano il latino, l’arabo e il greco. Le cattedrali, con i loro mosaici, formati da tessere di vario colore, capaci proprio per questo di delineare splendide figure, erano lo specchio di questa felice armonia delle diversità, al di là di una mortificante omologazione e di una pericolosa ghettizzazione. E tre continenti nemici – l’Africa musulmana, l’Asia bizantina, l’Europa latina e normanna – si congiungevano in questa città al centro del Mediterraneo, a prefigurare una speranza che in realtà poi non si è mai realizzata.
Perché Palermo, come del resto il Mediterraneo, sono diventate sempre più, nel corso dei secoli seguenti, la periferia di un’Europa che gravitava inesorabilmente sull’Atlantico. E la Sicilia è diventata il Sud di un’Italia governata dagli “altri”, che prima hanno cercato di colonizzarla, poi l’hanno abbandonata al suo destino, con la complicità degli stessi siciliani, prima di tutti la classe dirigente, che hanno trovato in questa apparente “libertà” – sancita anche costituzionalmente, dopo la seconda guerra mondiale, dall’autonomia regionale – il terreno propizio per costituire un mondo a se stante, dominato da da un viluppo di interessi particolari incompatibili con le esigenze di una reale crescita civile, prima ancora che economica.
Così Palermo, agli occhi di molti, è ormai solo una città di città, di quartieri che non comunicano fra loro, incapaci di cooperare per qualcosa che superi gli immediati interessi di parte. E c’è sicuramente, in questa visione negativa, un fondo di vero. Chiedete a un borghese del quartiere Libertà-Politeama se è mai stato nelle borgate di Danisinni, di Borgo Ulivia, di Ciaculli, di Medaglie d’Oro… Sì, certo, Palermo è la città dove manca il rispetto reciproco, la città del traffico senza regole, dell’immondizia per le strade, dei servizi pubblici che non funzionano, della disoccupazione; la città del cui declino è drammatico indicatore l’emigrazione forzata dei suoi giovani più promettenti, costretti a cercare altrove sbocchi di studio e di lavoro.
Però Palermo è anche la città di Falcone, di Borsellino, di padre Puglisi; la città dove è nato Addiopizzo, dove risorse di coraggio e di impegno civile sono maturate e hanno lasciato il segno; la città dove una imprenditoria intelligente e coraggiosa, come quella di Mosaicoon, è riuscita ad attecchire. Senza contare i nuovi personaggi interessanti, come Emma Dante o Roberto Alajmo, per far solo qualche esempio, che raccolgono l’eredità della grande tradizione dei Tomasi di Lampedusa e dei Leonardo Sciascia.
Si capisce perché si parlava prima di sfida. La nomina di Palermo a capitale della cultura non può essere solo un riconoscimento alla memoria. Ma perché sia un inizio di qualcosa bisogna che qualcosa cambi nei palermitani. Sia in coloro che costituiscono la classe dirigente – i professionisti, i funzionari, i professori – , sia in coloro che vivono acquattati nelle loro periferie abbandonate e autoreferenziali. E non ci sarà speranza per gli uni senza gli altri, che sono la stragrande maggioranza e li tengono perciò in ostaggio ogni volta che ci si deve contare. Così come non ci sarà speranza per i secondi se i borghesi del quartiere Politeama-Libertà non capiranno che devono stabilire con le borgate nuovi rapporti – ma forse basterebbe dire: dei rapporti – , uscendo a loro volta dalla propria illusoria autosufficienza.
Solo da questo incontro potrà nascere un nuovo senso di cittadinanza che accomuni i palermitani e li renda capaci di superare davvero la stagione della mafia, non solo grazie agli arresti dei boss, ma instaurando una mentalità e stili di comportamento finalmente liberi dalle logiche del clientelismo e del particolarismo.
Basterà un riconoscimento ufficiale a dare il via a questo processo? La maggior parte dei palermitani, figli di una storia intrisa di fatalismo, risponderebbero di no. Ma sotto i nostri occhi ci anche sono le esperienze di coloro che hanno saputo osare. Se qualcuno lo ha fatto, possono farlo tutti, magari unendosi a coloro che hanno cominciato. Essere rassegnati è facile. Difficile è lottare per cambiare qualcosa, anche solo una piccola cosa, partendo da quelle alla propria portata. Perché Palermo non sarà davvero la capitale della cultura se non imparerà a essere una capitale del coraggio di sperare.
(*) Settegiorni dagli Erei al Golfo (Piazza Armerina)